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Italicum, ecco mire e rischi per il baldanzoso Renzi

Massimo d'alema

Per Matteo Renzi la battaglia di Filippi, intesa come la partita decisiva con gli avversari interni ed esterni, non sarà quella di fine maggio, quando si voterà per il rinnovo delle assemblee regionali. Si tratta di un test, peraltro, molto più limitato di quello che nel 2000 si risolse in una battaglia di Filippi per l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Sì, proprio lui, che nei panni sarcastici e orgogliosi di “extraparlamentare” ha appena dato dell’”arrogante” a Renzi e ha cercato di mobilitare di più le minoranze del partito contro di lui, ma producendo l’effetto controproducente di dividerle ulteriormente.

Nelle elezioni di ben 15 anni fa, politicamente ancora più lontane di quanto non dicano i numeri, D’Alema commise l’imprudenza di scommettere su una vittoria che lo affrancasse da quel difetto di legittimità rimproveratogli fuori e dentro il suo partito per essere succeduto a Romano Prodi a Palazzo Chigi, nel 1998, solo per una sostanziale congiura di palazzo.

Di fronte alle 8 regioni, fra le quali le più popolose, conquistate nel 2000 dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi contro le 7 del centrosinistra D’Alema avvertì, più che il dovere, l’orgoglio, che certamente non gli manca, di dimettersi. E cominciò allora, inarrestabile, il suo declino. Non gli sarebbe più toccato infatti di tornare a Palazzo Chigi. E neppure di salire dove avrebbe voluto: prima al vertice di Montecitorio, dove il centrosinistra gli preferì Fausto Bertinotti, e poi al Quirinale, dove il suo stesso partito gli preferì nel 2006 il compagno Giorgio Napolitano. Il massimo, minuscolo del suo nome, assegnatogli dalla sorte dopo il breve passaggio a Palazzo Chigi fu, tra il 2006 e il 2008, un altrettanto breve passaggio alla Farnesina.

Renzi dalle prossime elezioni regionali di fine maggio non potrà temere sorprese devastanti un po’ perché le regioni in palio sono perché le regioni in palio sono solo 7 e un po’ perché il centrodestra, o quel che ne rimane, e i grillini sono francamente messi troppo male per fargli paura.

La battaglia di Filippi potrà invece essere quella che subito dopo le votazioni regionali aspetterà il presidente del Consiglio alla Camera sulla riforma elettorale. Il cui testo approvato al Senato nello scorso mese di gennaio, noto come “Italicum”, e da lui indicato addirittura come un modello già invidiato negli altri Paesi europei, rischia qualche serio infortunio.

Oltre alla parte della legge riguardante i capilista blindati e le preferenze lasciate solo alle briciole dei gruppi parlamentari, è a rischio il premio di maggioranza assegnato non alla coalizione, come in passato, ma alla lista vincente. Che se lo potrebbe aggiudicare senza ballottaggio se dovesse superare al primo colpo il 40 per cento dei voti, con ballottaggio fra le prime due se il risultato del primo turno dovesse fermarsi sotto il 40 per cento.

Il premio di lista, malvisto dalle minoranze del Pd per il supplemento di potere che conferirebbe al segretario del partito nella confezione delle candidature e nell’acquisizione dei gruppi parlamentari, fu votato con dichiarato disagio a Palazzo Madama dai senatori berlusconiani. Che lo subirono solo come un prezzo obbligato del cosiddetto Patto del Nazareno allora esistente fra Renzi e il leader di Forza Italia. Un patto però dal quale Berlusconi si è sdegnosamente sfilato dopo l’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, voluta e gestita da Renzi senza il suo consenso.

Le riserve, per non dire la contrarietà, di Berlusconi verso il premio di lista sono nel frattempo aumentate anche per le cresciute ambizioni e conquiste dei leghisti in quella che fu la sua area elettorale. Ma vi è anche il timore, avvertito per esempio da Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore, che la grave crisi del centrodestra, forse più componibile in una coalizione, per quanto eterogenea, che in una lista unica,  produca un ballottaggio tra Renzi e Beppe Grillo. Un ballottaggio nel quale i grillini potrebbero prevalere, come è già accaduto in Comuni come Parma e Livorno, per la idiosincrasia di buona parte degli elettori berlusconiani e leghisti verso la sinistra, anche di segno renziano. Sarebbe uno scenario da brividi.


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