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Le fondazioni bancarie entrino nelle Popolari. Parla il prof. Becchetti

L’approvazione definitiva della riforma delle banche popolari da parte del Parlamento ha riacceso il confronto sull’orizzonte del credito mutualistico e territoriale italiano. E ha provocato fratture profonde nello stesso mondo coinvolto dal provvedimento del governo. Comunque crescono i consensi di molti capi azienda degli istituti interessati sulla riforma del governo, nonostante l’associazione di categoria sia stata molto netta nel criticare il provvedimento del governo.

Ecco l’opinione dell’economista studioso di micro-credito, ed editorialista del quotidiano AvvenireLeonardo Becchetti.

Professore, come valuta il via libera di un’iniziativa che La Repubblica paragona a una “rivoluzione copernicana”?

Ho visto già versare lacrime di coccodrillo da parte dei fautori della riforma. Nell’editoriale in prima pagina del Sole 24 Ore Alberto Orioli ieri ha paventato il rischio dell’arrivo massiccio di fondi speculativi, della restrizione del credito a favore di piccole e medie imprese, della perdita della connotazione territoriale-sociale delle banche popolari. E si sono levate voci autorevoli nello stesso panorama politico.

Quali?

Il parlamentare del Partito democratico Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Attività produttive di Palazzo Madama, ha spiegato di non essere concorde su forma e contenuti del testo. Il sottosegretario dell’Economia Pier Paolo Baretta parla di provvedimento opinabile. Misura di cui non esiste una ratio economica.

Perché?

Le Popolari erano libere di cambiare forma societaria tramite un’assemblea. Costringere a farlo attraverso norme uniformi prefigura la violazione delle regole costituzionali riguardanti la libertà di impresa e le iniziative di carattere cooperativo. Fenomeni che nell’Europa e nell’Occidente democratici coinvolgono banche molto grandi e con elevata capacità di raccolta del capitale nel mercato. Le faccio un esempio significativo.

Prego.

La Germania di Angela Merkel ha scelto la linea della tutela del pluralismo creditizio. Mentre il governo italiano ha privilegiato uno strappo e un colpo di mano ricorrendo al voto di fiducia. Ha vinto la partita costringendo chi non condivideva le nuove regole a un Sì sotto minaccia di ritorno alle urne.

Molti amministratori delegati delle Popolari gongolano per l’innovazione introdotta dal governo.

Nel breve termine chi possiede le loro azioni può realizzare notevoli guadagni, visto che il valore dei titoli aumenta con il crescere della contendibilità degli istituti creditizi territoriali. Il problema concerne l’erogazione di risorse per famiglie e aziende nel lungo periodo. Verificheremo quali direzioni prenderà il risparmio accumulato.

Le fondazioni bancarie hanno invece evitato un intervento legislativo varando un’auto-riforma.

Era necessario stimolare tali processi di innovazione per gli istituti interessati. Così come è stato fatto per le banche di credito cooperativo. Adesso è interessante valutare se nel nuovo contesto sia possibile costruire gruppi di controllo in grado di conservare e valorizzare la missione storica delle Popolari: favorire lo sviluppo economico del territorio. A tal fine le fondazioni potrebbero diventare soci stabili delle banche trasformate in società per azioni.

Lei ha lanciato un appello a difesa delle banche di credito cooperativo. Vi sono novità?

Finora hanno aderito 163 studiosi. Vedremo se il manifesto troverà ascolto nelle istituzioni. L’esecutivo aveva alimentato grandi speranze con l’intervento quadro per il rilancio del Terzo settore. Il premier aveva tessuto le lodi dell’economia civile e solidale, ma con il provvedimento sulle Popolari ne ha limitato la libertà di espansione.



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