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Landini tra Podemos e Savonarola

Maurizio Landini vuol fare un partito, più Podemos che Syriza. No, vuol fare un movimento che magari si fa partito un po’ Syriza un po’ Podemos. Vuol diventare il nuovo Fausto Bertinotti. Vuol strappare voti a Grillo. Vuole spaccare il Pd (e in piazza c’erano da Rosy Bindi a Stefano Fassina). E se invece volesse diventare capo della Cgil al posto della Camusso (la quale prima s’è fatta baciare e poi accoltellare alle spalle, tanto che, capita l’antifona, ha dovuto lasciare precipitosamente il palco)? Quante strade sono aperte davanti a un altro leader che nasce autentico sindacalista della Fiom (da decenni in mano alla sinistra della sinistra) e diventa un altro strumento dello show business, gonfiato dalla Tv, lanciato da Santoro e da Floris (peccato che sia l’uno sia l’altro non siano più in condizione di rilanciare se stessi).

Il punto di forza della Cosa che sta nascendo attorno a Landini (la Coalizione sociale) è la disoccupazione conseguenza di una trasformazione strutturale che attraversa il lavoro, in tutte le sue forme. Una mutazione genetica destinata a proseguire anche con la ripresa, perché l’Unione europea e in particolare l’Eurolandia trascinano un fardello pesante: un tasso di disoccupazione del dieci per cento che rischia di diventare “naturale” come dicono gli economisti, ovvero endemico. Non tutti i Paesi sono allo tesso livello, perché si va dal 25% della Spagna al 5% della Germania. Ma anche i dati tedeschi sono segnati dal fatto che 8 milioni di persone hanno un posto precario e accettano 400 euro al mese. Dunque, questo è il brodo di coltura che alimenta i Landini, gli Tsipras, gli Iglesias. E aiuta a cucinare le ricette populiste di destra, dal pot-au-feu di Marine Le Pen alla polenta di Matteo Salvini. Tutti loro cercano di dare voce agli esclusi, i vinti con li chiamava Giovanni Verga. E’ necessario e lodevole in ogni sistema democratico. Ben diverso, ai limiti della disonestà intellettuale e politica, è illuderli per alimentare le proprie ambizioni.

La critica più diffusa che viene dall’interno del Pd è stata espressa dallo scrittore Francesco Piccolo: Landini ha ragione, ma la sua proposta politica è frutto del riflesso pavloviano di una sinistra che sta bene solo all’opposizione e, arrivata al punto da doversi assumere la responsabilità di governare, fa saltare il banco. Insomma, come Bertinotti nell’ultimo governo Prodi. E’ solo una parte della verità. Perché Landini ha torto proprio nell’analisi della realtà e nelle ricette con le quali vorrebbe cambiarla. La grande bugia che accomuna destra e sinistra radicale è che la frattura storica tra vecchio e nuovo lavoro, tra ceti sociali ed élite economiche, tra chi ha e chi non ha (in termini di conoscenza prima ancora che di reddito), possa essere saldata con il posto fisso per legge sostenuto dalla spesa pubblica. Anche il bagno di amara concretezza al quale è costretto Alexis Tsipras proprio in questi giorni, sta lì a dimostrarlo.

La gaffe in tv (arriva per tutti il momento della verità) quando il nuovo leader degli indignati italiani ha mostrato di non conoscere i provvedimenti presi dal governo per l’occupazione (che importa tanto bisogna gridare non ragionare!) mostra il livello non proprio eccelso della propaganda landiniana. In fondo Matteo Renzi ha già fatto il massimo nelle condizioni date, offrendo un aiuto di Stato all’occupazione stabile con lo sgravio fiscale di 8 mila euro l’anno per tre anni, deciso e approvato prima e non dopo l’introduzione del demonizzato Jobs Act che rende più aperto e flessibile anche in uscita l’impiego di manodopera. Quel che il governo non fa, non riesce a fare, è ancor più importante, ma Landini non lo dice perché smentisce il proprio paradigma.

Oggi, dopo la Lunga Recessione e dopo anni di assistenzialismo con la cassa integrazione in deroga, c’è una fetta di lavoratori che non è più in grado di occupare i nuovi posti offerti. Pochi hanno riflettuto sulle conseguenze di un episodio che ha avuto scarsa eco sui giornali: 1.500 lavoratori sui 5 mila delle Carrozzerie di Mirafiori non sono più capaci di lavorare, in parte per malattie professionali in parte perché inidonei ai nuovi impianti. La cassa integrazione finora ha coperto una tragedia individuale, sociale, economica, uno spreco di risorse umane, conseguenza diretta non solo della crisi, ma del modo in cui si continua ad affrontarla con ammortizzatori sociali figli della grande industria e della cultura dell’operaio massa. Cioè la tradizione alla quale Landini vuol mantenere tenacemente aggrappata la sua Fiom, il suo movimento, il suo futuro partito.

Per affrontare questo problema, per riportare al lavoro chi ne è stato espulso e per far entrare le nuove generazioni, occorre una profonda riconversione che riguarda la fabbrica, l’ufficio e in primo luogo l’istruzione. C’è bisogno di denaro, di tempo, ma soprattutto di una convinzione comune e di uno sforzo convergente di tutti i soggetti del mercato. L’Italia è rimasta indietro perché non sa più fare i mestieri di una volta e non può riproporli, mentre non è ancora in grado di fare al meglio i mestieri di oggi e del futuro. E’ questo che intendono gli economisti quando parlano di calo della produttività, o di caduta del prodotto potenziale (cioè di quel che si può realizzare impiegando al meglio tutti i fattori della produzione) ed è questo che ha fatto scendere il reddito pro capite ancor prima che scoppiasse la crisi.

“Renzi è peggio di Berlusconi”, ha tuonato il tribuno della plebe in piazza del Popolo. Evocando i riti del socialfascismo di staliniana memoria, secondo i quali il vero nemico della classe operaia, il più insidioso, il più perfido, non è nella destra capitalista, ma nella sinistra riformista. Forse Renzi potrebbe replicare che Landini è peggio di Salvini: entrambi suonano il piffero magico, ma il capo della Lega è nudo in copertina, il segretario della Fiom si copre col saio di Savonarola.

Stefano Cingolani


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