Dopo un mese di offensiva, il governo iracheno è riuscito a riprendere il controllo di Tikrit, la più importante cittadina strappata finora allo Stato islamico, che si trova nel centro settentrionale del Paese, sulle sponde del fiume Tigri.
Dire “il governo iracheno” può sembrare impreciso: perché a combattere, e vincere, l’IS sono andati soltanto un po’ di soldati del ISF (l’esercito ufficiale di Baghdad), mentre il resto ─ più o meno due terzi degli oltre 20 mila combattenti ─ erano miliziani sciiti di varia fattura, quasi tutti fedeli all’Iran. Non bastasse l’Hashd al Shaabi (la Forza di mobilitazione popolare che fa da ombrello alle varie milizie sciite), già adeguatamente istruita, Teheran aveva mandato sul posto un migliaio di membri delle Guardie rivoluzionarie: dovevano essere advisor, ma si trattava di gruppi scelti che conducevano regolarmente operazioni militari di ogni genere in prima persona. Con loro c’erano anche 150 membri di Hezbollah, il partito milizia libanese, alleato strategico dell’Iran. Soprattutto, la regia delle operazioni, era stata affidata al potentissimo Qassem Soloimani, capo delle Forze al Quds iraniane, la cui presenza a Tikrit è diventata ormai leggendaria. Nonostante il dispiegamento di forze, comunque, gli “iracheni” (definizione che qui sta ad indicare il gruppo composto da esercito regolare, milizie e alleati iraniani), dopo le prime due settimane di avanzata fluida, avevano trovato forte resistenza, tanto che il premier Haydar al ‘Abadi si era visto costretto a chiedere l’aiuto aereo della Coalzione US-led: aiuto che una volta arrivato si è rivelato decisivo nella svolta finale della battaglia.
Il primo insegnamento è chiaro: lo Stato islamico non avrà la forza per tenere la posizione tanto a lungo davanti a offensive così ampie, ma un gruppo dei suoi soldati (si dice cento, duecento) e la copertura a tappeto del territorio con ordigni IED nascosti un po’ ovunque, possono contenere una forza schiacciante come quella che si è lanciata su Tikrit. Infatti dopo la rapida avanzata dei primi giorni (con la conquista in fulminea successione dei villaggi limitrofi come Dour, Alam, e Albu Ajeel), la situazione è entrata in stallo: colpa della poca pianificazione e dello scarso addestramento al campo di battaglia urbano, almeno secondo il parere del capo del CENTCOM Lloyd Austin; circostanza che ha prodotto circa mille vittime tra le linee irachene (stando alle stime dell’agenzia McClatchy). E sembra che proprio davanti al crescere dei morti, mentre gli iraniani e le milizie di Hashd volevano continuare con l’offensiva, il Comando operazioni speciali di Baghdad si sia opposto chiedendo l’intervento americano. Una sconfitta per l’Iran, che aveva pianificato l’intera operazione, tanto che alcune delle milizie più fedeli sul campo (Asaib Ahl Al-Haq, Kataib Hezbollah, la Brigata imam Ali, la Brigate di pace, e la Badr Operation), avevano annunciato l’abbandono della battaglia, e insieme dichiaravano traditori i governanti di Baghdad e invasori (di nuovo!) gli americani ─ per alcune di queste organizzazioni, ogni occasione è buona per ribadire il proprio anti-americanismo, al punto che alcuni esponenti di Harakat Hezbollah al-Nujaba avevano minacciato di colpire gli aerei della Coalizione). Daniele Raineri del Foglio, che è stato nei giorni appena passati a Tikrit, ha raccontato di come tra i gruppi paramilitari che hanno affiancato l’esercito iracheno, nessuno parlasse ufficialmente dei bombardamenti, e di come si stesse invece diffondendo tra i combattenti una storia ─ fasulla ─ che racconta di aerei cargo americani che vanno a rifornire di armamenti lo Stato islamico nella provincia dell’Anbar (per questo, secondo la storia, non ci sarebbero progressi nella lotta contro il Califfo).
Sulla situazione, era intervenuto per metterci una pezza l’ayatollah al Sistani, massima autorità sciita in Iraq, che aveva preso posizioni molto simili a quelle del premier e aveva chiesto la collaborazione di tutti: passaggio favorevole per Washington. E così, grazie all’appoggio aereo, il centro di Tirkit è stato preso il 31 marzo: sebbene ci fossero ancora importanti sacche di resistenza, da quella data in poi i media filo-governativi iracheni hanno iniziato a diffondere la notizia della liberazione. Perché riprendere Tikrit, ha, dall’inizio dell’offensiva, un significato simbolico: non solo è la prima importante operazione di terra lanciata verso una grande città, e non solo è un test per vedere le reali capacità di riprendere Mosul (la seconda città del Paese); ma i palazzi di Tikrit sono la testimonianza pressante dell’epoca di Saddam, una roccaforte per reazionari e rancorosi baathisti sunniti estromessi con forza dal potere, che avevano aperto le porte all’IS e si erano riciclati tra le linee del Califfo per vendetta contro gli sciiti al governo.
Proprio attorno a quest’ultimo punto, ruotavano molte delle preoccupazioni sull’offensiva. La presa della città, sarebbe stata un test anche di carattere socio-politico: gli sciiti (ri)conquistatori sarebbero stati in grado di gestire il controllo cittadino senza incappare nella vendetta settaria? Su tutto pesa uno scenario che spiega l’epica della battaglia: quando a giugno lo Stato islamico entrò, centinaia di cadetti sciiti che si trovavano a Cob Speicher ─ un’ex base americana diventata accademia dell’aviazione irachena ─ furono giustiziati con un colpo alla testa e gettati nel Tigri (alcuni in fosse comuni). I sunniti, invece, ebbero salva la vita, L’esecuzione fu mostrata in uno dei più cruenti video dell’IS, “Secondo la metodologia dei profeti” il titolo, e le milizie sciite giurarono vendetta, sia contro il Califfato, sia contro chi aveva aperto loro le porte della città ─ cioè i sunniti locali, e molti baathisti ex-Saddam. In alcune immagini molto evocative di questi giorni, si vedono i miliziani sciiti tornare sul luogo delle esecuzioni, fornendo una sorta di tributo alle giovani reclute barbaramente uccise.
Lo scenario era preoccupante, e conoscendo l’odio confessionale che contraddistingue molte delle formazioni paramilitari sciite, la preoccupazione trovava ulteriori giustificazioni. Diverse denunce di saccheggi e incendi, erano arrivate nei primi giorni: gli sciiti di Asaib Ahl Al-Haq avevano bruciato le case a Albu Ajeel (frazione di Tikrit dove è stata scoperta una fossa comune con 3/400 corpi dei cadetti), mentre la Kataib Hezbollah faceva lo stesso a Dour. Non proprio “casi isolati”: Raineri stesso ha raccontato di aver visto anche lui segni di questo genere di rappresaglie in questi giorni, ma per quel che si sa (finora) non si è trattato di azioni sistematiche ─ lo hanno ammesso anche alcuni funzionari americani, che erano i più preoccupati su questo fronte.
Atti che sono dimostrazione di come le forze raccolte sotto l’ombrello dell’Hashd hanno la tendenza alla pulizia confessionale e alla vendetta, ma che fortunatamente finora sono state tenute a bada. Partner non troppo affidabili, nonostante la sovraesposizione mediatica e narrativa. Le strade delle città irachene più a sud, come Samarra o la stessa Baghdad (che è fa da base a molte di queste milizie), sono piene di cartelli pubblicitari che raccontano le gesta dei combattenti contro i mutatarrifin, gli estremisti, dell’IS e che invitano all’arruolamento. Anche Raineri ne ha fotografati diversi (qui, qui e qui, per esempio). E sempre il giornalista del Foglio (il cui reportage è qui spesso citato perché è un riferimento molto importante per raccontare la storia finale della battaglia di Tikrit) ha immortalato la presenza di molti esponenti di Hashd al Shaabi alla messa pasquale ─ tra loro c’era pure il Rambo iracheno Abu Azrael iconograficamente agghindato da battaglia, con tanto di granate al collo. Il messaggio era chiaro: “siamo noi sciiti i difensori dell’Iraq, di tutti gli iracheni, compresi i cristiani perseguitati dai sunniti del Califfo”.
Dopo quei primi giorni di scorribande, che avevano sollevato le proteste dei sunniti iracheni da Moqtada al Sadr a diversi politici, compreso il governatore della provincia (a maggioranza sunnita) di Salahaddin dove si trova Tikrit, è stato ancora una volta il portavoce dell’ayatollah al Sistani a chiedere al governo iracheno di punire chiunque fosse beccato a perpetrare abusi in città. Hashd ha negato ogni responsabilità, incolpando bande criminali e clan locali, ma sotto le forte pressioni da ogni lato, ha dovuto abbandonare il controllo cittadino, consegnandolo all’ISF.
La vittoria (annunciata) su Tikrit, aveva tutti gli elementi per trasformarsi rapidamente in sconfitta. Baghdad correva il rischio di staccarsi troppo dagli Stati Uniti, affidandosi solo alla partnership con l’Iran; circostanza venuta meno con il fondamentale intervento aereo US-led. L’ISF avrebbe potuto passare come forza secondaria e dipendente dalle milizie sciite, e sebbene questo sia stato vero per gran parte dell’offensiva, nelle fasi finali il ruolo dell’esercito regolare ha assunto una posizione di primo piano. Le milizie sciite sarebbero potute uscire dal controllo del governo, producendosi in atti vendicativi e settari contro i sunniti locali; aspetto che c’è e c’è stato, ma la freddezza e la ragionevolezza hanno in larga scala prevalso. Per lo meno finora.
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Foto: Daniele Raineri