Fede, geopolitica ed interessi economici si mescolano in due dei teatri di crisi più rilevanti del momento: Siria e Yemen.
I DRAPPI NERI IN SIRIA
I caccia canadesi hanno bombardato poche ore fa i loro primi obiettivi in territorio di Damasco, dove l’avanzata dei jihadisti neri ha trasformato in rapido tempo il dittatore Bashar al-Assad da bersaglio ad alleato – quantomeno momentaneo – dell’Occidente. La tensione è altissima, soprattutto nel campo profughi di Yarmouk, il più popoloso della Siria, a soli 8 chilometri dalla capitale, dove fonti locali affermano che i tagliagole del Califfato abbiano trucidato decine di rifugiati (i numeri sono incerti). Quel che è fuor di dubbio è che il gruppo terrorista controlla ormai gran parte del sito e ha inteso mostrarlo al mondo diffondendo un video con dei suoi miliziani che si aggirano all’interno della struttura.
EMERGENZA YARMOUK
Cecchini dell’Isis e di Al Nusra sorvegliano le uscite e gli appelli umanitari si susseguono: l’Unicef ha stimato che ben 3500 bambini siano intrappolati nel campo e dunque in pericolo di vita, con il rischio che si consumi “una nuova Srebrenica”.
Prima degli uomini di al-Baghdadi, ad attaccare l’insediamento erano stati proprio i soldati del regime, ma ciò che accade in queste ore ha spinto l’ala armata locale di Hamas e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina – entità in rotta tra loro e con lo stesso Assad – ad approvare l’intervento militare del governo siriano contro lo Stato Islamico. Un invito alla prudenza giunge invece dalle Nazioni Unite. Il segretario dell’Onu Ban Ki-moon – racconta la tv Al-Jazeera – teme che se Assad interverrà, per tutta reazione i jihadisti possano compiere un altro massacro nel campo profughi.
IL FRONTE YEMENITA
Più complessa, se possibile, la situazione in Yemen. Nel Paese impazza la guerra tra i ribelli Houti e l’esercito regolare, che prova a difendere il fuggitivo presidente Abed Rabbo Mansour Hadi e quel che resta delle fragili istituzioni di Sana’a. Il conflitto è esacerbato dallo sfondo confessionale che oppone le parti in guerra nella regione, sciiti e sunniti, e che si configura sempre più come un braccio di ferro per il predominio geopolitico tra due (o forse tre) player regionali: Iran, Arabia Saudita e Turchia, per ora defilata e ambigua. A loro si affiancano dall’esterno grandi potenze come Usa e Russia. Da un lato Teheran continua a fornire ai ribelli supporto finanziario e logistico e ha disposto navi da guerra nel golfo di Aden a scopo di deterrenza. E conta sul supporto di Russia e Venezuela, che – ricorda Al Arabiya -, si oppongono alla bozza di risoluzione dell’Onu che impedirebbe l’invio di armi ai miliziani Houthi. Dall’altro la coalizione guidata dall’Arabia Saudita riceve scorte di armi e munizioni dagli Stati Uniti e l’intelligence di Washington – ha confermato il vice segretario di Stato Antony Blinken – sta collaborando strettamente con Riad. Inoltre, quest’ultima prosegue nei suoi raid contro gli sciiti Houthi nel sud dello Yemen e, secondo fonti dei Servizi, starebbe meditando un attacco di terra (un’ipotesi che il Washington Post sconsiglia: lo Yemen, avverte, potrebbe finire col diventare il Vietnam saudita). Per tutta risposta la Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha criticato l’intervento saudita in Yemen definendolo un “genocidio” e ha definito “non vincolante” l’accordo sul nucleare. Una bella gatta da pelare, che mette in risalto un elemento chiave, evidenziato da alcuni analisti sulla stampa internazionale: la vicenda yemenita potrà segnare il passaggio a una nuova era nella regione: gli Stati non guarderanno più a Washington, a Mosca, o alle Nazioni Unite, per portare avanti la loro politica estera, ma cercheranno alleanze e coalizioni regionali ad hoc, per difendere i propri interessi.
UN TEST DOPO LOSANNA
Lo Yemen, ha scritto in editoriale sulla Stampa Marta Dassù, “è un test: di ciò che potrà diventare il Medio Oriente nei lunghi mesi in cui vincenti e perdenti di Losanna tenteranno di salvare o far fallire l’accordo nucleare con la Persia“. Non solo: “è irrealistico – ha rimarcato il direttore di Aspenia e senior director European affairs dell’Aspen Institute, già viceministro degli Esteri nel governo Letta – pensare che progressi sul dossier nucleare possano in quanto tali produrre un riavvicinamento politico fra Washington e Teheran, dopo 36 anni di tensioni durissime. Il Presidente americano ha semmai, dopo Losanna, il problema opposto (e il problema opposto in effetti lo ha anche la Guida Suprema). Proprio perché vuole raggiungere un accordo finale sul dossier nucleare con Teheran, Barack Obama deve anzitutto rassicurare e garantire gli alleati tradizionali dell’America nella regione: da Israele all’Arabia Saudita, alleati nei fatti anche fra loro. Non a caso, il Pentagono ha stanziato armi e intelligence a sostegno dello sforzo militare dell’Arabia Saudita in Yemen, cui partecipa attivamente anche l’Egitto“.
IL DILEMMA TURCO
Meno in evidenza c’è invece quello che Foreign Affairs ha definito “il dilemma turco” a Sana’a. Dopo avere in passato dato prova di favorire il ritorno dell’Iran nei circuiti internazionali, Ankara ha deciso, un po’ a sorpresa, di sostenere la coalizione saudita in Yemen, bombardando gli Houthi. La ragione, spiega Limes, è da ricercare nella frustrazione della Turchia, passata in pochi anni dall’essere “la stella nascente” del firmamento mediorientale, a vedersi oscurata dalla crescita d’influenza di Teheran, che potrebbe avere la decisiva consacrazione con la conferma, entro giugno, del pre accordo sul nucleare raggiunto a Losanna. “Se nel 2010 i leader turchi proclamavano più o meno implicitamente l’imminente rinascita dell’Impero ottomano, ora sono i dirigenti iraniani a sbandierare le loro velleità imperiali. La retorica sulla vocazione imperiale dell’Iran e su Baghdad come capitale dell’Impero iraniano forse sovrastima la reale influenza di Teheran in Medio Oriente. Per i turchi, tuttavia, la nascita di un “Impero neopersiano” che minaccia di cancellare i confini tra Iran e mondo arabo sembra essere una minaccia concreta“.
IL PESO DELL’ORO NERO
Ma la geopolitica e la religione non sono le uniche lenti attraverso le quali leggere i sommovimenti che scuotono lo Yemen. Tra gli effetti dell’azione militare saudita nel Paese c’è stato un aumento del prezzo del petrolio, che dallo scorso giugno non aveva mai fermato la sua discesa. Secondo la US Energy Information Administration, lo Yemen produce soltanto 133mila barili di petrolio al giorno ed è al 39° posto nella lista dei produttori mondiali. La sua rilevanza energetica è però tutta nella sua strategica posizione geografica. Dallo stretto di Bab el Mandeb passa il 40% dell’oro nero mediorientale.