A 76 anni ancora da compiere, e molto ben portati, bisogna ammetterlo, con tutti quegli allenamenti in bicicletta che appartengono alla sua immagine come la mortadella che i burloni gli hanno perfidamente assegnato addirittura come soprannome, il professore Romano Prodi sembra essere di quelli che mangiano o servono rigorosamente e sapientemente freddo il piatto della vendetta. Lo fa diversamente da molti suoi colleghi, politici e accademici, che la vendetta la consumano, o la tentano, a caldo e raccolgono spesso, proprio per questo, effetti controproducenti, dando l’impressione di essere mossi più da risentimenti che da argomenti sensati, maturati appunto a freddo.
Con la sua “Missione incompiuta” appena raccontata e spiegata con Marco Damilano per l’editore Laterza l’ex premier dell’Ulivo del 1996 – e della riedizione tentata a Palazzo Chigi dieci anni dopo, di ritorno peraltro dalla consolatoria presidenza della Commissione dell’Unione Europea procuratagli da Massimo D’Alema, suo primo e diretto successore alla guida del governo italiano – si è tolto un bel po’ di sassolini dalle scarpe. Ma se l’è presa, più in particolare, con l’ultimo che, in ordine di tempo, gli ha procurato un bel po’ di delusioni. E che è naturalmente Matteo Renzi, ancora più di D’Alema, che lo scalzò nel 1998 da Palazzo Chigi, e di Pier Luigi Bersani, che da segretario del Pd gestì due anni fa in modo a dir poco fallimentare la sua prima candidatura al Quirinale, procurandone la bocciatura per via dei famosi 101 franchi tiratori, mobilitatisi cioè in Parlamento contro di lui al coperto del voto segreto.
Prodi, che sa fare di numeri, anche se nel 1998, in verità, sbagliò i conti e inciampò in una sfida alla fiducia imprudentemente accettata nell’aula della Camera, è convinto che quei 101 avversari bendati in realtà fossero stati di più: almeno 120. Ne è convinto avendo avuto a suo tempo notizie di una ventina di soccorsi, sempre bendati, ricevuti da parlamentari di gruppi ufficialmente schierati contro di lui. E probabilmente mossisi non del tutto spontaneamente, ma avvicinati e stimolati – anche se lui se ne mostra inconsapevole – da chi nel Pd e dintorni aveva coltivato e sostenuto la sua aspirazione a succedere a Giorgio Napolitano.
Una massa di franchi tiratori maggiore di quella comunemente considerata sino alla convinzione espressa da Prodi che accredita o aumenta, secondo i gusti, i sospetti sul ruolo svolto contro il professore emiliano nelle elezioni presidenziali del 2013 dagli amici dell’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi. Sospetti ai quali lo stesso Renzi finì per esporsi sostenendo fra i primi, o lasciandolo annunciare dai suoi, che la prima e unica votazione svoltasi su Prodi dovesse essere considerata anche l’ultima. E infatti si passò rapidamente alla svolta della rielezione di Napolitano, proposta all’interessato con una processione di politici e amministratori locali sul colle più alto di Roma.
A Renzi comunque Prodi rimprovera abbastanza chiaramente anche di non averne consentito l’anno scorso, pur avendolo ricevuto in pompa magna a Palazzo Chigi, un recupero internazionale alla grande che gli sembrava a portata di mano come mediatore nella bolgia militare e politica della Libia, che tante complicazioni ci sta procurando sul drammatico fronte dell’immigrazione.
Ma al mancato recupero internazionale seguì nel giro di alcune settimane anche la resa immediata di Renzi al veto posto da Silvio Berlusconi contro la candidatura di Prodi al Quirinale, dopo la rinuncia di Napolitano a portare a termine il suo secondo mandato. Renzi preferì all’ipotesi di Prodi il salvataggio del famoso “patto del Nazareno” con il leader di Forza Italia. Un patto però che egli stesso avrebbe stracciato dopo qualche giorno sfidando Berlusconi con la candidatura di Sergio Mattarella, si sta vedendo con quali effetti e rischi – al di là della degnissima figura del capo dello Stato – sul piano politico e sul destino della legge elettorale, che pure è diventata la priorità assoluta del presidente del Consiglio.
A livello di governo, Prodi liquida ora Renzi come l’uomo del “trapano”, preferendo per cultura e politica “il cacciavite” del predecessore Enrico Letta. E gli contesta, con l’esperienza e la competenza indubbiamente acquisite a Bruxelles alla guida della Commissione Europea, la sostanziale o pratica insufficienza dei tentativi di far cambiare marcia, politica, verso e quant’altro all’Unione e, più in particolare, alla gestione dei parametri degli ormai vecchi, e superati, trattati di Maastricht del 1992. Parametri che già a Bruxelles, bisogna riconoscerlo, Prodi dileggiò come “stupidi”. E che andrebbero evidentemente ridefiniti per evitare di finire non aiutati ma “travolti” dall’Europa.
Il piatto, della vendetta o no, è servito.