La Casa Bianca ha confessato giovedì che un attacco drone avvenuto il 15 gennaio nelle aree tribali pachistane della valle dello Shawal, ha ucciso due civili tenuti prigionieri da un gruppo qaedista locale. I due uomini sono l’italiano Giovanni Lo Porto, rapito nel 2012 mentre stava lavorando con l’organizzazione tedesca Wel Hunger Hilfe nell’ambito di un progetto finanziato dall’UE che si occupava di aiutare la popolazione locale a far fronte ai danni prodotti dalle recenti alluvioni, e lo statunitense Warren Weinstein, direttore della filiale pachistana della J.E. Austin Associates, società privata di consulenza che assiste economie emergenti nella crescita e ha progetti in tutto il mondo. Le uccisioni sono avvenute «accidentalmente», termine usato dalla Casa Bianca per spiegare che lo strike doveva colpire un’abitazione in cui si trovavano quattro sospetti terroristi ─ uccisi, comunque, anch’essi. Nota: sembra che la Cia non fosse a conoscenza dell’esatta identità di alcuni dei quattro elementi sospetti.
Scrive sul New York Times Mark Mazzetti (l’autore del libro “Killing Machine” che racconta la metamorfosi aggressiva con cui i servizi segreti americani hanno iniziato ad approcciarsi alle operazioni nella fase “post-11settembre”) che gli agenti della Cia che hanno osservato per settimane dai droni i movimenti attorno al compound bombardato nel villaggio di Bacha Dara, hanno capito che qualcosa era andato storto quando hanno visto estrarre dalle macerie sei corpi anziché quattro.
L’esatta individuazione degli elementi colpiti da un drone-strike in certi contesti territoriali “senza legge” come quello del Waziristan pachistano, è un processo che richiede tempo: servono verifiche, incrocio di dati, presenza di fixer locali (e certe volte vengono inviate pure le forze speciali per verificare che l’obiettivo dello strike sia stato colpito, come successe nel caso del capo degli Shabaab Godane). Molto spesso, succede che non si ha la reale consapevolezza di chi può trovarsi insieme all’obiettivo principale: dalle dichiarazioni della Cia (che è la responsabile dell’uso di droni da combattimento in quell’area), nei giorni di osservazione non c’era stata il minimo segnale che nell’edificio potessero trovarsi i due ostaggi ─ gli americani hanno concluso che o si trovavano già là prima dell’inizio dei monitoraggi e non erano mai stati spostati, oppure vi erano stati portati durante una lacuna delle osservazioni.
Va ricordato che in Pakistan, a differenza di altri Paesi, la Casa Bianca permette i cosiddetti “signature strike”: cioè l’identità degli obiettivi non deve essere comunicata al presidente, e la Cia ha completa libertà di azione sulla base delle proprie informazioni. Questo genere di attacchi, molto criticati per la maggior incidenza di vittime civili, si sarebbero dovuti interrompere nel 2014, secondo quanto dichiarato dalla stesso presidente Obama nel 2013. I funzionari americani hanno riconosciuto però, che quello del 15 gennaio fu un “signature strike”, eseguito su elementi che ne garantivano «alta sicurezza», ma basato su “modelli di comportamento” osservati e non su reali informazioni di intelligence.
Da quanto emerso, inizialmente l’intelligence americana ─ che stava compiendo continui voli di sorveglianza, osservazioni satellitari, intercettazioni di telefonate, e muovendo i suoi contatti a terra per verificare il successo del bombardamento ─ non aveva capito che fossero stati i missili del drone ad uccidere i due civili.
Obama sembra sia stato informato della conclusione dell’indagine in questo mese: si tratta del primo caso noto in cui un drone americano uccide ostaggi stranieri. «Mi assumo le piene responsabilità per tutte le operazioni antiterrorismo», ha dichiarato Obama. Ma tra i diversi dubbi della vicenda, c’è anche da capire come mai il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi sia stato tenuto all’oscuro dell’uccisione di Lo Porto fino a mercoledì, nonostante il venerdì precedente si fosse recato in visita ufficiale a Washington.
Altre questioni riguardano gli ostacoli giuridici dietro all’attacco. L’obiettivo principale insieme ad altri tre operativi, era Ahmed Farouq, americano con cittadinanza pachistana, figura che sembra aver avuto un ruolo centrale nella recente esportazione del brand qaedista in Asia del Sud (se n’era parlato mesi fa su Formiche). Pochi giorni dopo il 15 gennaio, un altro attacco drone ha ucciso Adam Gadhan, anche lui americano, portavoce in inglese di al Qaeda. Ammesso che sapessero di chi si trattava, circostanza non esattamente definita (da Langley dicono di no, ma sembra incredibili), bombardare e uccidere due americani, è un aspetto che avrebbe preso vie burocratiche molto complesse e scatenato il dibattito pubblico: l’uccisione, approvata dalla Casa Bianca nel 2011, dell’ideologo di al Qaeda in Yemen Ansar al Awalki, americano, si porta dietro ancora gli strascichi della polemica. Il 15 gennaio, è stata usata la via del “signature strike”, forse anche per accelerare qualche passaggio. Stesso vale se la Cia non era a conoscenza di chi fossero esattamente gli uomini nel compound, la “signature strike” ha comunque permesso rapidità d’azione.
Il Drone Program di uccisioni mirate è da tempo oggetto di controversie legali, ma sostanzialmente i congressisti americani continuano a sostenerlo nell’ottica della lotta al terrorismo, e stante alla reazioni registrate dai media statunitensi, la vicenda dei due civili morti non ha spostato di troppo queste posizioni. Si riapre invece il dibattito sulla competenza: da quanto scrive Politico, Dianne Feinstein, leader democratico del Comitato di intelligence del Senato, ha avuto un ruolo chiave per mantenerne più parti possibile sotto la Cia quando un paio di anni fa Obama pensava di spostarne l’intera operatività al Joint Special Operations Command, braccio del Pentagono che si occupa di operazioni clandestine. Il problema, secondo alcuni, è che essendo in mano ai servizi segreti la gestione degli attacchi in Af/Pk (Yemen e Somalia sono affare del dipartimento di Stato invece), le tempistiche per il rilascio dei dettagli delle operazioni si allungano e vengono più facilmente messe sotto totale copertura.
La transizione è in stallo, ed è un processo tutto politico. Il 15 marzo, senza troppi clamori è stato sostituito il responsabile del programma droni della Cia, in base a quanto ha scritto il Washington Post. L’American Civil Liberties Union in un comunicato si chiedeva come l’impegno del presidente per la trasparenza, si possa abbinare alla tetra segretezza del programma di “assassinii di Stato” eseguiti con i droni. Da quando il ricorso agli aerei a controllo remoto è diventato non più un mezzo ma una strategia (memorabile la copertina dell’Atlantic uscita nell’agosto 2013, che titolava “Drone warrior” in riferimento a Obama), le polemiche non si sono mai fermate, non solo internamente, visto che diversi stati, anche alleati, disapprovano il metodo ─ l’uso dei droni, per esempio, è una delle leve di chi ritiene incongrua l’assegnazione del Nobel della Pace del 2009 al presidente americano.
«Il pubblico americano ha il diritto di sapere in merito alle azioni intraprese per suo conto anche, e soprattutto a volte, quando tali operazioni vanno male» ha dichiarato il democratico Adam Schiff, membro californiano della Camera, tra i più forti sostenitori della necessità di unificare il programma sotto il JSOC dell’esercito.
Altra questione su cui il pubblico americano (e mondiale) dovrebbe aspettarsi un’improbabile risposta è questa: perché la Casa Bianca ha scelto di confessare la morte dei due civili, con più velocità di al Qaeda. che di solito utilizza questi espedienti per propaganda?
(foto: Getty)