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Ecco come si organizzano le milizie cristiane nella Piana di Ninive

Dopo i mesi di sbandamento dovuti alla rapida avanzata delle squadre jihadiste del Califfo Abu Bakr al Baghdadi, i cristiani d’Iraq si sono dotati – pur tra mille difficoltà logistiche e tecniche – di proprie milizie. Dal 2014, ha scritto il giornale francese La Croix, nella regione sono attive il Dwekh Nawsha e le Unità di protezione della piana di Ninive. Entrambe le formazioni diffidano dai curdi, che pure nei loro territori hanno dato ospitalità a migliaia di profughi fuggiti dalla persecuzione: “Per noi, i peshmerga non sono meglio dello Stato islamico”, ha spiegato il numero due di Dwekh Nawsha, che in assiro significa “Brigata dei martiri di domani”. La diffidenza verso i curdi si spiega con vari episodi in cui i villaggi cristiani sarebbero stati lasciati al proprio destino proprio dai combattenti peshmerga, impegnati a contrastare l’avanzata dell’Isis.

“SIAMO IN ATTESA DI UNA FORZA INTERNAZIONALE”

Ecco perché, giunta notizia di saccheggi a opera dei combattenti di Erbil, si è pensato a costituire milizie esclusivamente cristiane. Sempre alla Croix, Fouad Massoud, già comandante dell’esercito iracheno e ora a capo di quattrocento combattenti delle Unità di protezione della piana di Ninive, ha spiegato di non “poter fare affidamento su noi stessi e sulla comunità internazionale. Noi siamo in attesa di una forza internazionale che possa proteggere il nostro territorio”. La prospettiva, però, è quella di dar vita “all’esercito regolare di una regione autonoma cristiana abitata da altre minoranze, un po’ sul modello dei Peshmerga della regione curda”.

COMBATTENTI (E FINANZIAMENTI) STRANIERI

L’aspetto interessante è che tra le milizie è in atto da mesi una corsa a ottenere finanziamenti stranieri per il sostentamento e l’equipaggiamento dei “soldati”. Fonti primarie sono la Russia e gli Stati Uniti. Tra i combattenti anche alcuni stranieri, soprattutto americani e britannici.

“LE MILIZIE SONO IL MALE MINORE”

Lo scorso marzo, in un’intervista al periodico francese La Vie, il patriarca della chiesa siro-cattolica, Ephrem Joseph Younan, aveva osservato: “Le milizie sono il male minore. Qual è l’alternativa? Si vuole per caso che le nostre comunità vengano sgozzate come fossero montoni? Io sto dalla parte di chi vorrà difendersi e morire con l’onore d’aver combattuto il male e difeso gli innocenti”.

LA BENEDIZIONE DEL VESCOVO SIRO-CATTOLICO

Qualche settimana prima, il vescovo della chiesa siro-cattolica di Mosul, Youhanna Boutros Moshe, aveva visitato un campo di addestramento delle Unità di protezione della piana di Ninive, controllato da Fouad Massoud. Il presule, benedicendo la milizia, aveva esortato i volontari “ad andare avanti”, dichiarandosi “orgoglioso del loro coraggio, dimostrazione di fede e lealtà alla patria”.

LE PAROLE DEL CARDINALE PAROLIN

Su quanto accade nel vicino oriente e in Nordafrica, è intervenuto implicitamente anche il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, nel corso di una lectio magistralis alla Facoltà teologica del Triveneto. Al cuore di tutto, ha spiegato il porporato, deve esserci il dialogo, “strumento della misericordia”, che diventa “la via maestra per favorire la comprensione tra le diversità e costruire la pace in mezzo a visioni e modi di vivere ed agire contrapposti”. Sul dialogo, ha aggiunto Parolin secondo quanto si legge nella ricostruzione dell’Osservatore Romano, “dobbiamo insistere, trattandosi di un punto che è stato sviluppato in continuità da Papa Francesco sin dal suo insediamento al Soglio di Pietro come qualcosa che appartiene al mondo reale, alla quotidianità delle persone e non è legato ad un’idea o ad una teoria”.

IL SOFT POWER DELLA CHIESA

“Per fermare la guerra e creare condizioni di pace”, ha sottolineato il segretario di Stato, “è necessaria una nuova collaborazione sociale ed economica, libera da condizionamenti ideologici, che sappia far fronte al mondo globalizzato, mantenendo vivo quel senso di solidarietà e carità reciproca”. Lo strumento proprio della chiesa, ha detto ancora Parolin, è “un soft power fatto di convinzioni e di comportamenti esemplari”, finalizzati a “creare più giustizia” e “una mentalità e quindi una società sul lungo periodo”.


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