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Renzi non può pensionare la previdenza

L’orizzonte del regime previdenziale italiano appare più che mai ricco di incognite. A complicare un panorama che dal 1992 ha conosciuto ben sei riforme sono la bocciatura ad opera della Corte Costituzionale del blocco dell’adeguamento all’inflazione per le pensioni lorde superiori a tre volte il livello minimo, e la proposta di rendere flessibile l’abbandono del lavoro vincolato a una sensibile penalizzazione finanziaria rilanciata dal presidente dell’INPS Tito Boeri.

Temi che sono stati analizzati in un convegno promosso presso il CNEL dal Centro Studi ImpresaLavoro guidato da Massimo Blasoni.

Le prospettive demografiche

La cornice in cui è necessario concepire e mettere a punto gli interventi più efficaci in un terreno nevralgico dal punto di vista economico-sociale è stata tratteggiata da Michela Pellicani, professoressa di Statistica e Demografia presso l’Università di Bari. Si tratta del fenomeno, globale e protratto nel tempo, dell’invecchiamento della popolazione. Destinato a provocare effetti traumatici nel rapporto tra contributi previdenziali in calo per la crisi e trattamenti pensionistici in costante aumento.

Uno strumento efficace per fronteggiarlo, ha rilevato la studiosa, prevede politiche per la natalità e strategie per l’accoglimento di cittadini immigrati che entro il 2050 costituiranno il 30 per cento circa della comunità italiana. Allo stesso tempo “bisogna agganciare le tendenze demografiche alla speranza di vita e salute, e promuovere la produttività nel lavoro oltre che la partecipazione femminile al mercato occupazionale”.

Promuovere dinamiche generazionali di occupazione e redditi

Eventuali iniziative in campo previdenziale, ha evidenziato il segretario generale di ISIMM Ricerche Giuseppe Greco, dovranno tener conto di un elemento incontrovertibile: per il 2050 il tasso di dipendenza degli anziani dai lavoratori raddoppierà rispetto al 2000.

È per questa ragione, ha spiegato il presidente del MEFOP-Società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione Mauro Marè, che l’Italia è chiamata a completare il percorso innovatore iniziato nel 1992: “Ancorando gli interventi sulla previdenza a politiche incisive nel mercato del lavoro e per lo sviluppo economico. Perché in un regime a ripartizione, fondato su parametri di solidarietà fra le generazioni, le persone attive pagano i trattamenti degli individui a riposo. E non riescono a farlo in un panorama di stagnazione produttiva”.

Per favorire la crescita, lo studioso propone di investire nell’economia reale i 180 miliardi di patrimonio dei fondi integrativi e delle casse previdenziali del nostro Paese. Mentre resta scettico riguardo al prelievo sulle pensioni più alte: “Mancano cifre precise per calcolare l’esatto rapporto tra contributi versati e assegno percepito”.

Le “fabbriche delle pensioni”

È la prova del persistere di arretratezze in un modello, ha ricordato l’esperto di previdenza obbligatoria e complementare Giuseppe Guttadauro, che per troppo tempo ha conosciuto gestioni irresponsabili di spesa e utilizzo dissennato delle pensioni di anzianità.

Stagione archiviata definitivamente grazie alla riforma promossa nel 2011 da Mario Monti e Elsa Fornero: “Fondamentale per salvare l’Italia ancorché criticata oggi dalle forze politiche e sociali che la approvarono con largo consenso. Ma che può venire corretta dall’introduzione di regole flessibili per l’uscita dal lavoro tra 60 e 70 anni con meccanismi penalizzanti per chi anticipa il ritiro”.

Al contempo, ha rimarcato il consulente, è necessario favorire il ricorso delle giovani generazioni ai fondi di previdenza complementare. Che sono in vigore dal 1993 ma hanno registrato finora il 28 per cento di adesioni, a fronte del 90 per cento dell’Unione Europea.

Verso pensioni europee?

Elemento preoccupante in un paese che, ha osservato il presidente del Gruppo di lavoro sull’imprenditoria dell’OCSE Salvatore Zecchini, si trova in recessione economica e spende per le pensioni 4 punti percentuali al di sopra della media Ue.

Una ricetta per colmare un simile divario è stata fornita dall’economista Giuseppe Pennisi, che guida il board scientifico di ImpresaLavoro: “Costruire al più presto un regime previdenziale a ripartizione fondato sul metodo contributivo comune a tutta l’Europa. Valorizzando e incentivando il ruolo delle pensioni private e favorendo la mobilità lavorativa delle giovani generazioni nel Vecchio Continente”.

Progetto che ha alimentato un interrogativo nel filosofo politico Carlo Lottieri, dell’Istituto Bruno Leoni: “Passare da un assetto pubblico e politicizzato a un modello imperniato sulla responsabilità individuale e sociale richiede un cambiamento di mentalità. E il percorso non sarà facile. Tanto più nell’Italia caratterizzata da retaggi culturali ostili al capitalismo di mercato”.


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