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Pensioni, perché attaccare la Consulta è errato. Parla Alberto Brambilla

È necessaria una riforma definitiva per mettere in sicurezza la tenuta del regime previdenziale italiano? Ed è possibile applicare la sentenza della Corte Costituzionale che ha riconosciuto la legittimità della rivalutazione, per il 2012 e 2013, degli assegni superiori tre volte il trattamento minimo?

Mentre prosegue un confuso dibattito sulle scelte che il governo è chiamato a realizzare per rispettare la decisione della Consulta, Formiche.net ha interpellato Alberto Brambilla, presidente dell’associazione Itinerari previdenziali e già alla guida del Nucleo di valutazione sulle pensioni del Ministero del Lavoro di cui fu sottosegretario con Roberto Maroni.

La Corte Costituzionale ha peccato di attivismo giurisdizionale entrando nel merito di scelte politico-legislative?

Il fatto che la votazione dei giudici sia stata un po’ sofferta rivela le tracce di un confronto ampio sul tema dell’adeguamento delle pensioni di un determinato livello all’inflazione. Così come confezionata dal governo Monti-Fornero, la norma del decreto “Salva-Italia” bocciata dalla sentenza è molto imprecisa per platea e motivazioni. Il testo presenta un riferimento generico a “ragioni finanziarie” per giustificare il blocco della perequazione.

La Consulta ha dunque agito correttamente?

Certo. Le norme annullate dai giudici costituzionali penalizzavano le persone che hanno versato contributi elevati per l’intera vita lavorativa. Mentre la grande maggioranza dei cittadini che ricevono un assegno inferiore a quella soglia non hanno fatto altrettanto. Si tratta di 8 milioni di pensionati assistiti integralmente dallo Stato: la metà del totale. È possibile che siano stati tutti così sfortunati?

Il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti ritiene “impensabile e immorale” rimborsare tutti.

Le sue parole sono infelici. Una persona che ha ricevuto 100mila euro lordi di reddito annuo nella propria attività professionale ha pagato nello stesso arco temporale 33mila euro di contributi, con il 45 per cento di tasse. Rivendico un po’ più di rispetto per il merito di chi ha versato cifre rilevanti in modo trasparente. Ma del merito l’attuale governo sa soltanto riempirsi la bocca. E alla luce della frase pronunciata da Zanetti, vorrei conoscere la differenza tra Scelta civica e comunismo.

La decisione della Corte può essere rispettata alla lettera senza mettere a repentaglio la tenuta dei conti pubblici?

L’impatto sul bilancio non è terrificante. Nella peggiore delle ipotesi, il costo finanziario al netto delle tasse ammonta a 4,3 miliardi complessivi.

Il regime previdenziale del nostro paese richiede un intervento incisivo alla luce delle previsioni demografiche?

Dal punto di vista finanziario il sistema è in ordine e in linea con la media europea. Grazie alle riforme realizzate a partire dagli anni Novanta siamo riusciti ad archiviare una realtà da terzo mondo. Pensi che fino al 1997 una lavoratrice pubblica poteva andare in pensione con 15 anni 6 mesi 1 giorno di attività e con il riscatto della laurea. Nel comparto industriale una persona poteva farlo a 49 anni in presenza di “gravi motivi” legati al tipo di lavoro. Il problema è un altro.

Quale?

Il modello previdenziale italiano è a “ripartizione”, fondato cioè su parametri di solidarietà fra le generazioni. Per cui le persone attive pagano i trattamenti degli individui a riposo. Ma la crisi economica ha ridotto di 1 milione 800mila i lavoratori, con un calo corrispondente e considerevole dei contributi pensionistici. È questo il punto su cui intervenire.

Ha in mente una risposta?

Propongo un piccolo prelievo di solidarietà, progressivo e ancorato al reddito percepito, per tutti gli assegni previdenziali. Compresi i trattamenti sociali di 400 euro mensili. È una misura legittima, visto che i loro beneficiari spesso non hanno versato nulla. Potremmo reperire fra 5 e 7 miliardi annui, convogliandoli in un fondo per le agevolazioni fiscali e il credito d’imposta a favore dell’assunzione dei giovani under 29 e degli over 56 fino all’età della pensione.

Il governo ha già previsto sgravi fiscali e contributivi a tale scopo.

Si tratta di interventi triennali, che non forniscono garanzie di un rapporto lavorativo stabile. La nostra proposta può favorire la creazione di 1milione 200mila opportunità occupazionali, con l’aumento conseguente dei contributi per le pensioni. È l’unica manovra che può salvaguardare il sistema previdenziale. L’alternativa è ricorrere nuovamente a inasprimenti fiscali, accrescere il debito e scaricare sulle povere generazioni giovani una zavorra intollerabile.

Giorgia Meloni e Matteo Salvini prospettano un taglio delle “pensioni d’oro”.

Calcoliamole queste “pensioni d’oro”. E verifichiamo chi ha pagato meno rispetto a quanto ricevuto. Nei loro confronti è giusto intervenire.

Come valuta l’idea di rendere più flessibile la scelta di abbandonare il lavoro in cambio di una penalizzazione economica, rilanciata dal numero uno dell’Inps Tito Boeri e dal presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano?

Il progetto che abbiamo messo a punto con “Itinerari previdenziali” incentiva le imprese a mantenere i lavoratori nel mercato occupazionale. Tuttavia la proposta Damiano mi sembra la più seria per affrontare il problema. L’unica riserva che nutro riguarda l’entità della riduzione dell’assegno pensionistico. Rispetto agli 8 punti percentuali di tagli prefigurati dal parlamentare del Pd per chi lascia il lavoro a 62 anni, ritengo più realistica una decurtazione compresa tra 11 e 12 punti.


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