Cosa c’è di più grave, in un momento di difficile transizione economica come quello che stiamo vivendo, del comportamento di chi, svolgendo funzioni pubbliche, tradisce la propria comunità per realizzare un arricchimento improprio?
Il diritto penale deve essere certo caratterizzato da efficacia e da congruità, ma esso può avere una valenza simbolica e svolge anche la funzione di registrare la riprovazione sociale che, in una determinata fase storica, si sviluppa nei confronti di un comportamento.
Per questo credo che l’approvazione del disegno di legge anticorruzione messo a punto dal governo sia di fondamentale importanza non solo perché si dota così il nostro ordinamento di nuovi strumenti di contrasto a questo fenomeno, ma anche perché si afferma con forza e nettezza un principio sacrosanto: chi si fa corrompere, o chi corrompe, tradisce il Paese.
Il fenomeno della corruzione rappresenta uno dei mali storici italiani ed è principalmente il frutto delle inefficienze della macchina statale e della storica debolezza della sfera pubblica. Le grandi trasformazioni globali hanno cambiato radicalmente il mondo, il ruolo e la funzione degli Stati-nazione, il rapporto tra politica ed economia.
Per valutare questo mutamento credo sia utile volgere lo sguardo a ciò che è accaduto nella storia recente del nostro Paese sul tema della corruzione dall’esplosione di Tangentopoli alle recenti attività d’indagine. I fenomeni corruttivi emersi nei primi anni Novanta vedevano un ruolo asfissiante e degenerato della politica che condizionava e influenzava la libertà di mercato e di iniziativa economica piegandole a un sistema dei partiti bulimico che faceva dell’uso spregiudicato delle risorse pubbliche una leva fondamentale del consenso.
Il quadro che emerge dalle inchieste odierne ci offre invece un altro scenario. Apparati statali più fragili, una capacità corruttiva pervasiva e una politica sovrastata dall’economia che recita una parte ancillare e subalterna. La crisi sociale e l’indebolimento della struttura statale ha insomma reso la politica sempre più fragile di fronte agli interessi particolari che la condizionano e ai poteri illegali che la insidiano.
In un Paese come il nostro, caratterizzato dalla storica presenza di potenti organizzazioni criminali, la prostrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni apre spazi crescenti ai fenomeni criminali in ambito economico, sociale e politico. Non credo sia infatti un caso che i fenomeni corruttivi s’intreccino sempre più spesso con la criminalità organizzata e che, anche quando non stabiliscono una relazione diretta, percorrano le medesime strade e utilizzino gli stessi varchi per infiltrarsi e piegare la sfera pubblica e lo Stato ai loro interessi.
Sono assolutamente convinto che per vincere questa battaglia campale la repressione sia soltanto una parte della lotta, forse neanche così determinante (ricordo che l’attuale governo tra i suoi primi interventi ha scelto di attivare il punto di riferimento di questo indispensabile percorso di prevenzione, l’Autorità contro la corruzione guidata da Raffaele Cantone), ma questo non è un buon motivo per non fare una seria analisi di ciò che non ha funzionato nel nostro sistema repressivo.
A me, voglio dirlo con chiarezza, pare sbagliato rappresentare il nostro come un Paese privo di strumenti per la lotta alla corruzione, a semplice riprova basterebbe citare le molte inchieste in corso. Sono anche consapevole del fatto che talvolta la via più semplice per esorcizzare fenomeni di grave allarme sociale sia quella dell’inasprimento delle pene o quella dell’estensione dell’area del diritto penale. È un rischio che si corre sempre quando si affrontano temi di grande sensibilità emotiva, ancora più acuti nei periodi di crisi sociale come quello che stiamo attraversando.
Sono però altrettanto convinto che con il disegno di legge anticorruzione il governo abbia evitato questo rischio. Certo, le pene che riguardano i reati contro la Pubblica amministrazione (peraltro rimaste ferme per lunghissimo tempo) sono aumentate. Ma noi abbiamo fatto anche molto altro. Da tempo le organizzazioni internazionali ci segnalavano ad esempio che nel nostro Paese esistevano due gravi lacune: la prima era l’assenza dello strumento dell’autoriciclaggio, la seconda era un sostanziale svuotamento del reato di falso in bilancio. Il governo Renzi è intervenuto per colmare questi due buchi normativi.
Con l’introduzione del delitto di autoriciclaggio contribuiamo non solo a rendere più incisiva l’azione di contrasto al fenomeno dell’accumulazione di patrimoni illeciti ma a consentire l’azione di indagine anche quando il reato presupposto non può più essere perseguito. Con la reintroduzione del falso in bilancio, invece, non ci limitiamo a punire condotte che sono il presupposto all’attività di carattere corruttivo: tuteliamo il mercato e l’economia nazionale ripristinando elementi di trasparenza anche a tutela di potenziali investimenti esteri.
Ho trovato incongruo, a questo proposito, il dibattito infarcito di espressioni come compromesso al ribasso o al rialzo che si è sviluppato intorno al provvedimento del governo, un ragionamento troppo incentrato sulla sola valutazione di quanto severe dovessero risultare le pene piuttosto, invece, di quanto congruo e funzionale dovesse essere l’insieme del sistema. Dico questo perché credo che tutte le norme siano un compromesso tra necessità diverse: nel caso specifico l’esigenza di dure sanzioni e il bisogno di impedire una funzione eccessivamente invasiva dello Stato, la garanzia di strumenti e controlli per una trasparenza massima e una più libera e semplice attività di mercato. Tutte le norme, nel loro intimo, sono il punto d’incontro di esigenze di carattere diverso, spesso manifestate da settori politici diversi: con questa legge, io credo, il governo sia riuscito a migliorare e a rendere più congruo e funzionale il sistema di repressione di cui disponiamo.
Da questo punto di vista, se davvero si considera la corruzione come un’emergenza di carattere nazionale, lo sforzo per la ricerca dell’unità dovrebbe essere il presupposto fondamentale dell’azione di tutte le forze politiche. Questo Paese ha sconfitto i fenomeni più gravi – dalla crisi economica derivante dalle macerie della guerra, al terrorismo, all’aggressione mafiosa nei confronti dello Stato – quando ha saputo realizzare un grado sufficiente di unità. Nella lotta alla corruzione questo governo credo stia rendendo un servizio al Paese. Ma non riusciremo a dare un segnale chiaro agli italiani, soprattutto dal punto di vista culturale, se non riusciremo a farlo con l’aiuto di tutte le forze politiche. Su temi come questi, prima della legittima affermazione del proprio punto di vista dovrebbe venire la costruzione dell’unità.
(articolo pubblicato sul numero di maggio 2015 della rivista Formiche)