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L’Ue metterà i “boots on the beach” in Libia?

Il corrispondente da Bruxelles del Guardian sarebbe entrato in possesso di un documento che riguarda la strategia che l’Unione Europea vuole adottare per far fronte al traffico di migranti uscente dalla Libia: in questo ci sarebbe un richiamo esplicito all’uso di forze terrestri.

Si dice “strategia” in termini generici, ma ci si riferisce al piano già ampiamente illustrato sui media e studiato dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’UE Federica Mogherini, presentato ufficialmente lo scorso weekend e in fase di definizione tecnica da parte dell’Inghilterra. In pratica si tratta di adottare azioni militari per colpire le navi degli scafisti: il governo del neo rieletto David Cameron sta studiando i contorni di una bozza di mandato da chiedere alle Nazioni Unite per mettere in moto l’operazioni sotto l’egida Onu. Niente di nuovo, insomma, se non fosse che finora le istituzioni europee, Mogherini in testa, avevano sempre negato la possibilità del controverso utilizzo di boots on the ground: per questo l’articolo del Guardian è uno scoop molto importante.

In realtà, anche senza la campagna terrestre, ci sono già diversi problemi dietro al piano-Mogherini che l’Italia dovrebbe guidare (Daniele Raineri li ha spiegati sul Foglio). La discussione inizierà oggi a Bruxelles, partendo dalle quote d’accoglienza, che è un argomento assai scabroso: Mogherini vorrebbe una ripartizione più equa dei profughi (in base a Pil e popolazione dei vari stati UE), ma trova l’opposizione di Paesi come Regno Unito, Polonia, Ungheria e vari altri dell’Est, per cui oggi si ragionerà solo di percentuali e non di numeri assoluti (nella pragmatica dei legislatori, le persone diventano facilmente numeri). Altra questione è legata al veto pesante della Russia e della Cina, entrambi membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, che sono molto scettiche sull’intervento militare (la Russia è ancora risentita per la missione contro Gheddafi). Poi c’è l’assenza di una spalla locale. La scelta tra uno dei due esecutivi, visto che il governo di Tripoli non è ufficialmente potabile (per quella storia dello stampo islamista), ricadrebbe su quello di Tobruk, che gode di più riconoscimento internazionale. Ma i cirenaici dicono di non essere ufficialmente a conoscenza di niente ─ sebbene Mogherini sostenga il contrario, e cioà di aver messo le parti locali al corrente del piano ─ e che valuterebbe un’azione militare come un’ingerenza armata all’interno del proprio stato.

Certe posizioni vanno inquadrate in uno scenario: Tobruk è molto più interessato a un altro piano, che è in studio da parte di sauditi ed egiziani, i nuovi paladini dell’area MENA (Middle East and North Africa), che si porterebbero dietro Giordania, Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Kuwait, Bahrein, Sudan: Paesi che vedono Tobruk come unico interlocutore, e che pensano ad un intervento armato non tanto per andare a risolvere il “nostro” (nostro di Europa) problema di immigrazione, ma per andare contro il governo tripolitano, che considerano guidato da pericolosi e deviati islamisti ─ notare che questi non stanno a sottilizzare sulle differenze in termini di “terrorismo” tra l’esecutivo di Tripoli e lo Stato islamico a Sirte e Derna, ma hanno come obiettivo iniziale solo quello di spazzare via il governo di Khalifa el-Ghowail, e poi, soltanto poi, di mettere nel mirino le fazioni dello Stato islamico (Notare due. L’Italia avrebbe un ruolo pure in questo piano, fornendo appoggio navale, mentre la Francia, l’altro paese europeo coinvolto e in pieno innamoramento d’interesse con il mondo arabo, darebbe supporto logistico e forze speciali).

Un altro problema che l’esecutivo di Tobruk ha da subito rivelato sul piano-Mogherini (o meglio sulle rivelazioni avute sul, visto che dicono di non aver dettagli ufficiali), e che è stato condiviso da vari analisti, è la difficoltà (diciamo pure “l’impossibilità”) con cui le bombe UE distinguerebbero le navi degli scafisti da quelle dei pescatori. Il rischio di vittime civili è alto, e pure quello di indurre perdite alla precaria economia locale della pesca.

Servirebbero uomini a terra per confermare gli obiettivi, appunto. Sulle 19 pagine del documento avuto in esclusiva dal Guardian, si parla proprio di questo: campagna aerea e navale contro le navi degli scafisti, con riserva di operazioni di terra mirate a distruggere il background logistico dei contrabbandieri (depositi di carburante, centri di smistamento, etc). Il giornale inglese cita un passaggio virgolettato in cui c’è scritto che l’operazione richiederebbe la presenza di unità di intelligence e sorveglianza, ricognizione e pattugliamento (queste marittime e aeree), squadre di abbordaggio e forze speciali.

Per «distruggere il modello di business dei contrabbandieri» (virgolettati del documento, ripresi dal Guardian), sarebbe necessario muoversi «dentro le acque interne e territoriali della Libia e sulla sua costa».

La finestra temporale di intervento, sarebbe limitatissima ─ ecco perché la presenza di commandos sul posto potrebbe essere necessaria. La prassi con cui vengono organizzati i viaggi dei migranti, di solito prevede l’affitto di un barca civile da parte dei contrabbandieri, che normalmente viene tenuta all’àncora (in un porto civile) fino alla sera stessa del viaggio, quando viene spostata e ormeggiata a poca distanza dalla costa, e lì viene raggiunta dai gommoni con i profughi, raccolti prima in luoghi sulla riva. Seguendo questi passaggi, si capisce quanto sia complicato distruggere una nave degli scafisti, senza mettere nessuno in pericolo di vita.

La situazione poi peggiora, se si pensa che molti dei clan dei contrabbandieri operano sotto la protezione (pagata) delle milizie locali: quelle stesse milizie, che o da un lato o da un altro, sono protagoniste della guerra civile libica.

@danemblog

(Foto: Jason Florio / AFP / Getty Images)


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