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Facebook, Twitter e Google alla conquista dell’editoria

Questa è un’epoca in cui l’editoria naviga a vista. I dati Nielsen sulla pubblicità sono desolanti: a febbraio il totale degli investimenti pubblicitari è calato del 5,2% sul mese precedente; i quotidiani hanno perso l’8,9%, i periodici il 6,2, la tv il 4,9. In realtà non va bene neanche per il web, – 5,3. In crescita solo radio e affissioni. Che cosa succede, aldilà della crisi?

LO STUDIO DELLA COLUMBIA

Cominciamo ad esaminare gli argomenti proposti da un report pubblicato dal Tow Center for Digital Journalism della Columbia Journalism School nel dicembre del 2014, intitolato “Post Industrial Journalism: Adapting to the Present” e curato da Chris Anderson, Emily Bell, Clay Shirky. Alla base dello studio non c’è un ragionamento sul futuro dell’industria editoriale ma il fatto che “quel futuro è già qui e non esiste più un’industria editoriale”. Già, perché, oggi, tutti – autori, imprese (gli inserzionisti pubblicitari), la massa di gente precedentemente conosciuta come l’audience – sono stati dotati di una nuova libertà di comunicare. E quella trasformazione dei lettori e spettatori in utenti ed editori richiede non di cambiare tattica ma concezione di sé, non essendoci modo di preservare editoria e giornalismo così com’erano.

Per tutto il XX secolo, fino all’avvento dell’Internet commerciale – osservano gli autori -, editoria e giornalismo hanno ricevuto, sostanzialmente, un sussidio chiamato pubblicità. Poi, il meccanismo ha iniziato a incepparsi con la rottura dell’integrazione verticale del prodotto editoriale. E in America, come nel resto del mondo, il fatturato pubblicitario ha cominciato a cadere. La rottura dell’integrazione verticale del prodotto (in estrema sintesi, editore-redazione-produzione dei contenuti-distribuzione-vendita) è data dal fatto che ognuno di noi paga per l’infrastruttura e quindi intende usarla. Acquistiamo servizi dai provider, computer, dispositivi mobili, stampanti. E quando si ha l’intenzione di leggere su carta, stampiamo la notizia che ci interessa. Così come guardiamo un video su Youtube o lo streaming di un evento in diretta. O scarichiamo un podcast. E così via.

IL DIALOGO CON LE IMPRESE

Allo stesso tempo, gli inserzionisti non hanno mai avuto un interesse nel sostenere i mezzi d’informazione in sé. Li sovvenzionavano perché, attraverso di loro, potevano entrare in contatto con il proprio target. E oggi hanno a disposizione i sempre più efficaci strumenti dell’inbound marketing, quello, cioè, “in entrata”, che intercetta la ricerca in rete dei propri interessi da parte degli utenti; un meccanismo centrato sul web. Con l’advertising, marche e organizzazioni lanciavano al pubblico – attraverso i media – messaggi che dovevano assicurare la copertura del target, ossia, che avrebbero esposto quello stesso pubblico al messaggio.

Oggi, siti web, blog di marca e prodotto, canali nei social media, email permettono alle imprese di aprire un dialogo con chi è alla ricerca di un prodotto o un servizio o una causa. E da questi strumenti si può estrarre una messe di dati: le cosiddette metriche che si possono analizzare e utilizzare per sviluppare e raffinare progressivamente nuove strategie. E ora considerate il semplice fatto che gli investimenti pubblicitari veicolati attraverso i social media non passano più per le casse di un editore.

NUOVI MECCANISMI PER PRODURRE FATTURATO

Di fronte a questo mutamento epocale, editori e redazioni provano a sviluppare nuovi meccanismi per produrre fatturato: dai paywall (abbonamento) alla native advertising di cui tanto si discute oggi: ossia lo sviluppo di contenuti di qualità, a cura della redazione, finanziati dall’inserzionista pubblicitario. Non i vecchi publi-redazionali nati nelle aree comunicazione delle imprese, ma veri contenuti informativi che in qualche modo sono in relazione con il settore, l’area, l’attività dell’inserzionista. Un subbuglio di tentativi ed esperimenti in un settore alla ricerca di nuove strategie per rapportarsi con un mondo in rapidissimo cambiamento.

I PROTAGONISTI

Ma ecco che dai motori di ricerca e dai social network arriva una serie di mosse che possono segnare l’inizio di una nuova epoca nell’universo dell’informazione. Perché Snapchat, Google, Facebook e Twitter fanno, quasi in contemporanea, la propria mossa. E ognuna di queste, in qualche modo, ha a che fare con l’affermazione dei dispositivi mobili per l’accesso a Internet.
A gennaio, Snapchat – il servizio di messaggistica istantanea per smartphone e tablet basato sulla facoltà degli utenti di inviare ai propri contatti messaggi di testo, foto e video visualizzabili solo per un breve periodo di tempo – ha lanciato “Discover”. Ossia, una sezione della propria app di cui fa parte una selezione di media companies. Tra le altre, Cnn, Cosmopolitan, Daily Mail, National Geographic, Vice, Yahoo News, Warner. Il network lascia agli editori il 100% del fatturato pubblicitario se venduto da questi e il 40% se è Snapchat stessa a piazzare l’inserzione.

I PROGETTI DI TWITTER

Twitter, il regno del microblogging in 140 caratteri, che, grazie all’uso degli hashtag e alla capacità di inserire un link in ogni post è divenuto stabilmente il social preferito di giornalisti e testate da cui, ogni minuto, partono i lanci di un’infinità di articoli avrebbe in progetto – se ne vocifera da tempo come riferisce Business Insider UK – di comprare direttamente una media company.

Ci avrebbero provato con Mic.com, una start-up media (insomma una testata in rete) costruita per produrre notizie per un pubblico di millennials, ossia, i nati tra i primi anni 80 e i primi anni zero. L’affare non va in porto ma l’intenzione di Twitter sarebbe immutata. Ma quale l’obiettivo di questa mossa, che, dotando Twitter di una propria media company, potrebbe farne, anziché un partner, un diretto concorrente dei propri utenti più importanti? Twitter non utilizza un algoritmo per stabilire quali post debbano comparire nel flusso di messaggi che vengono visualizzati da un utente. Gli oltre 300 milioni di utenti attivi di Twitter possono vedere tutti i post lanciati da coloro che seguono. Se Twitter compra una media company questa caratteristica è destinata a cambiare? O è solo, come riporta sempre Business Insider, quello di poter sperimentare più rapidamente nuovi prodotti per gli editori?

L’INIZIATIVA DI GOOGLE

Passiamo a Google. Molto si è scritto, in questi giorni, di quella che è stata chiamata “Digital News Initiative” la novità di Big G. Dni – spiega Mountain View – è basata su tre pilastri: sviluppo di prodotti. Sarà creato un gruppo di lavoro – in partnership con un gruppo di editori europei – per esplorare lo sviluppo di nuovi prodotti volti allo sviluppo del fatturato, del traffico e dell’engagement del pubblico; supporto all’innovazione del giornalismo digitale finanziato con un fondo (150 milioni di euro) indirizzato a stimolare – per tre anni – l’innovazione nell’area del giornalismo digitale; formazione e ricerca. In Italia, ha aderito a Dni “La Stampa”. Gli altri partner europei di Dni sono il francese “Les Echos”, le tedesche “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e “Die Zeit”, i britannici “Financial Times” e “Guardian”, l’olandese “Nrc Media” e lo spagnolo “El Pais”.

I moventi di Big G? Da tempo – come successo in Spagna con la legge sul diritto d’autore che ha spinto alla chiusura di Google News in quel paese – il grande motore di ricerca è accusato di lucrare sull’indicizzazione di contenuti sviluppati da altri.

Da noi, a fine aprile, è stato Felice Confalonieri, presidente Mediaset, a puntare il dito su Google affermando, a margine dell’assemblea degli azionisti del Biscione, che “Si stima, ma possiamo solo congetturare, che solo Google dreni risorse pubblicitarie per quasi un miliardo e mezzo all’anno”. Così, Dni può essere un metodo per stringere un patto con l’editoria: pace in cambio di redistribuzione del fatturato.

LA MOSSA DI FACEBOOK

Ma il passo più forte è, probabilmente, quello di Facebook. Perché il più grande tra i social media prende una strada decisamente più diretta, denominata “Instant Articles”: la pubblicazione, da parte delle media company, di articoli nativi su Facebook e poi sui propri siti web. Tutto questo per dividere con le testate i proventi delle inserzioni pubblicitarie pubblicate a fianco degli articoli.

La ragione di questa scelta sarebbe centrata sul mobile: quando un utente del social network clicca da uno smartphone o un tablet un link a un articolo esterno, il tempo medio di caricamento è di otto secondi. O peggio se il sito collegato al link non è ottimizzato per il mobile. Ma se l’articolo fosse pubblicato su Facebook l’esperienza offerta al lettore sarebbe migliore. Facebook, dunque, non intenderebbe acquisire media company. Ma “Instant Articles” è una proposta che deve spaventare gli editori o una grande opportunità? Al contrario di Twitter, il maggiore social network del mondo utilizza un algoritmo per selezionare i contenuti che compaiono nella bacheca di ogni singolo utente (a oggi oltre un miliardo e 400 milioni di iscritti).

“Instant Articles” potrebbe finire per favorire i suoi partner a danno di chi non aderisse alla proposta? Per converso, si può pensare che cedere contenuti di qualità – e il 30% del fatturato a favore di Facebook – dedicati al network apra nuove strade di visibilità.

Di certo, l’idea di spingere gli editori a creare content nativo per Facebook dà la misura del bivio a cui è giunto il mondo dell’informazione. “Instant Articles” si avvia con la partecipazione di “New York Times”, “National Geographic”, “BuzzFeed”, “Nbc News”, “The Atlantic”, “The Guardian”, “Bbc News”, “Spiegel Online” e “Bild.  Si diceva, un tempo “È la stampa bellezza.” Ma, per l’appunto, era un’altra epoca. Oggi entriamo in quella in cui le grandi piattaforme sociali e i motori di ricerca tentano di diventare l’ecosistema principale dell’informazione. Ora sta agli editori misurarsi con questa nuova e complessa sfida.


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