Vertici israeliani e sauditi si sono mostrati pubblicamente uniti nel condividere una nuova visione strategia comune, che ha come fulcro il contrasto all’azione espansionistica dell’Iran (più o meno ufficiale) in Medio Oriente.
Paesi nemici di Teheran che dicono di essere “nemici di Teheran”: potrebbe sembrare una notizia non degna di nota. Se non si considerasse lo scenario storico: ufficialmente i il Regno saudita e il governo israeliano non hanno relazioni (Riad non riconosce lo Stato ebraico), anche se in via “informale” si sono spesso scambiati fondamentali attività di intelligence, soprattutto sul tema “Iran”. Ora si apre una nuova fase, in cui i due stati dichiarano di avere addirittura una visione strategica comune: vale dunque la pena parlarne parlarne perché le visioni strategiche sono quelle a lungo termine e gli effetti potrebbero arrivare tra qualche tempo.
Gli incontri resi pubblici in questi giorni, sono stati portati avanti da funzionari operativi e non da alte figure istituzionali, ma si sa che sono i primi quelli che più di tutti tessono certe trame. Per Israele c’era Dore Gold, primo tra i consiglieri per gli Esteri del governo e figura molto vicina al primo ministro Benjamin Netanyahu; per i sauditi l’ex generalissimo Anwar Eshki. I due hanno incontrato la stampa al Council on Foreing Relations di Washington, luogo nevralgico, cuore dei think tank americani (dove, appunto, si tessono le strategie).
L’attività iraniana sta contribuendo a rendere ancora più tesa la situazione nella regione mediorientale. I consiglieri di Teheran si muovono in lungo e in largo per l’Iraq, dove appoggiano il governo locale nella lotta allo Stato islamico; altrettanto fanno in Siria, dove però si trovano nella discutibile posizione di dare sostegno all’alleato storico dell’area, il regime di Damasco, che mentre combatte dolcemente l’IS sferra i colpi peggiori contro tutti gli altri gruppi di ribelli. Inoltre l’Iran appoggia (anche se non proprio ufficialmente) i rivoluzionari sciiti Houthi in Yemen.
Secondo molti analisti, l’interessamento alle vicende irachene, siriane e yemenite, è soltanto un tentativo dell’Iran per marcare la propria presenza: una sorta di proxy per diffondersi e radicarsi all’interno di questi Paesi, ottenerne presa e fedeltà, con il fine di segnare influenza, controllo in Medio Oriente. Qualche mese fa, girava un vanto tra le élite di Teheran: “Occupiamo quattro delle capitali arabe”, dicevano riferendosi a Baghdad, Damasco, Beirut e Sana’a (Beirut era fuori dall’elenco precedente, perché dire che l’Iran ha presa in Libano, dove gestisce il partito armato Hezbollah, è quasi scontato).
Tutto avviene mentre gli Stati Uniti ─ principali alleati occidentali di Israele e Arabia Saudita ─ stanno da tempo imbastendo intensi rapporti diplomatici con l’Iran per chiudere (c’è tempo entro fine mese) in maniera definitiva l’accordo quadro siglato un paio di mesi fa sullo stop al nucleare iraniano. È noto che la linea dell’Amministrazione Obama non piace a Riad e Tel Aviv, e l’apertura dei rapporti con l’annuncio di una visione strategica contro gli ayatollah, è un altro chiaro segnale.
Una settimana fa esatta, è uscito un report dell’Agenzia nucleare internazionale, in cui i tecnici (presenti in Iran) spiegavano che in realtà non c’è stato proprio un «congelamento» del programma iraniano durante questi 18 mesi di trattative ─ “congelamento” è l’appiglio semantico scelto da Washington per far passare l’idea che Teheran stesse facendo sul serio al tavolo dei negoziati, iniziando proprio dal bloccare ulteriori avanzamenti del programma nucleare. Dicono gli uomini dell’IAEA che sì, alcune centrifughe sono state fermate e sono stati fatti altri piccoli passaggi, ma allo stesso tempo gli iraniani hanno aumentato le scorte di uranio arricchito per combustibile nucleare durante le fasi delle trattative. A questo punto come possono fidarsi sauditi e israeliani? (E non solo loro, verrebbe da dire).
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