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Tutti gli effetti geopolitici dell’accordo sul nucleare iraniano. Parla Nicola Pedde

L’atteso accordo tra l’Iran e il gruppo dei 5+1 sul futuro del programma nucleare della Repubblica Islamica è stato raggiunto. Un’intesa dalla portata storica, che aveva come obiettivo principale quello di mettere a punto un testo che impedisse a Teheran di dotarsi dell’atomica per un certo numero di anni, ma che fosse allo stesso tempo buono per essere accettato dal Paese sciita.

Quali sono, dunque, gli effetti geopolitici dell’accordo? E cosa cambia nelle relazioni tra Washington e Teheran?

Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con Nicola Pedde (nella foto), esperto di Iran e direttore dell’Institute for Global studies.

L’accordo sul nucleare iraniano è raggiunto. Ma chi ne aveva più bisogno, Teheran o Washington?

C’era un interesse reciproco e paritario, dimostrato dal fatto che il negoziato lo hanno di fatto gestito loro due, con una serie di attori secondari, tra cui Russia e Cina, alcuni più attivi, altri neutri.

Cosa cambia adesso?

Era un contenzioso aperto da anni, che era giusto lasciarsi alle spalle, ma che non implica ancora il riallaccio delle relazioni diplomatiche. Ora parte la fase più difficile.

Quali saranno i prossimi passi?

Avendo sforato il limite del 30 giugno, ora si apre una fase non di 30, ma di 60 giorni di tempo in cui il Congresso americano dovrà ratificare l’accordo. Questo è il primo scoglio. Una volta ratificata l’intesa, poi partirà un periodo di adozione e implementazione del provvedimento. In pratica 1 anno e mezzo di costruzioni di relazioni di buon vicinato tra Usa e Iran.

Quali sono i rischi di questa fase?

Ci sono delle opposizioni nel Congresso, anche se contrariamente a ciò che dicono i media occidentali il maggiore nemico di un accordo non sono i repubblicani, ma il gruppo dei democratici che rappresentano alcune lobby che sostengono, tra l’altro, Hillary Clinton. Tuttavia questo è un rischio marginale. Entrambi i Paesi hanno infatti interesse a concludere senza troppi scossoni.

Perché?

Per l’Iran è importante arrivare alle elezioni parlamentari di maggio 2016 nel modo meno traumatico possibile, per favorire un ricambio del ceto parlamentare in senso ancor più moderato. Per gli Usa, invece, c’è il desiderio di consegnare a chiunque vinca le elezioni, presumibilmente i repubblicani, il migliore accordo possibile. Il vero rischio è in Medio Oriente. Siamo davanti ad almeno 15 anni di destabilizzazione regionale, alla fine dei quali l’area potrebbe uscirne con confini diversi.

L’accordo può avere un effetto stabilizzatore per il Medio Oriente?

Certamente. Con quello che sta accadendo in gran parte della penisola araba, includere l’Iran ufficialmente serve a contenere meglio il Daesh (acronimo arabo per indicare l’Isis, ndr). Per quanto sia una cooperazione che non può essere sbandierata, in Iraq e Siria c’è stato già un coordinamento per contrastare i drappi neri. E poi un Iran non emarginato può essere un elemento stabilizzatore sia in termini politici sia per la sua stessa politica interna. L’apertura comporta sempre riforme che non possono che essere libertarie. Al contrario, l’isolamento porta a una radicalizzazione.

Con questa intesa gli Usa consegnano il Medio Oriente all’Iran?

No. Gli Usa sono un attore pragmatico a differenza dell’Ue, che perde troppo tempo a parlare. Hanno una visione globale. Qualsiasi analista si rende conto che il Medio Oriente è in una situazione non così rosea. Sono molti i possibili focolai, più di quelli che già ci sono. L’Iran, molto banalmente, può essere d’aiuto in questo caos e Washington lo ha capito.

Due attori regionali di peso nonché alleati degli Usa, come Arabia Saudita e Israele, non condividono questa visione.

Sì, ma per ragioni diverse. La prima ha compreso che l’Iran rappresenta un modello antagonista a quello delle monarchie ereditarie del Golfo, tutte in crisi. Teheran si regge su un modello di Paese islamico forse imperfetto, ma sicuramente più democratico di quello autoritario delle petromonarchie, che temono ogni tipo di apertura. E rispetto al passato non possono nemmeno affibbiare all’Iran sciita l’etichetta di “cattivo”, perché pare evidente che il conflitto islamico sia sempre più una questione intra sunnita. Quando si parla di Israele sarebbe invece più corretto parlare del suo premier Benjamin Netanyahu. Ha radicalizzato il dossier per fini politici, puntando sull’inaffidabilità dell’interlocutore quindi, di fatto, su un regime change. Ciò ha di fatto impedito ogni tipo di dialogo. Ma sono certo che l’intelligence e l’intero sistema militare israeliano sia più che felice di un accordo che consente a Israele di avere strumenti strettissimi di controllo sull’Iran che prima non aveva, e che responsabilizzerà per forza di cose la stessa Repubblica Islamica.


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