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Caro Renzi, per sedurre la Merkel sul 3% occorre tagliare la spesa pubblica

Se Matteo Renzi ha seguito il dibattito al Bundestag (o lo ha fatto seguire da uno dei pochissimi consiglieri dei quali si fida) deve aver capito che la sua speranza principale è destinata a trasformarsi in una illusione. La speranza è che, messa sotto controllo la crisi greca, dimostrato a tutti che non la rigidità ottusamente teutonica non si va da nessuna parte, Angela Merkel sia disposta a concedere all’Italia una valvola di sfogo, cioè lo sforamento del tetto del 3% al disavanzo pubblico in rapporto al pil per fare altre riforme: pubblica amministrazione (che comunque ha un costo soprattutto se si debbono rinnovare i contratti e offrire incentivi alla mobilità), giustizia civile (anche qui i magistrati faranno le barricate per avere in cambio aumenti e scatti di cartiera), e tutto il resto. Agli occhi di Renzi (e per la verità di tutti gli italiani) la riforma delle riforme è quella fiscale – come ha fatto capire ieri parlando in particolare della tassa sulla prima casa e di un piano di riduzione tributaria da 45 miliardi in 3 anni  – in modo da ridurre in modo realistico, ma permanente la pressione fiscale sui redditi, a cominciate da quelli generati dal lavoro. Una riforma i cui costi sono allo stato attuale difficilmente prevedibili.

Perché i tedeschi e i loro alleati a Bruxelles chiudano un occhio, bisogna avere degli alleati non solo fuori, ma soprattutto dentro la Germania. In base alla logica delle famiglie politiche, i primi alleati dovrebbero essere i compagni socialdemocratici. Invece la Spd è divisa non tra falchi e colombe, ma tra falchi e sparvieri. Autorevolissimi esponenti, e non tutti dell’ala destra, la pensano esattamente come Schaeuble: sarebbe meglio la Grexit per i greci, per i tedeschi e per gli europei. Non c’è alternativa a una sana finanza pubblica come premessa per aumentare la crescita e raggiungere la piena occupazione, esattamente come dimostra la Germania riformata dal socialdemocratico Schroeder e poi amministrata dalla Merkel. Schroeder ha sforato il deficit, ma è stato davvero uno sfondamento temporaneo, adesso il bilancio è in pareggio, il debito, salito in risposta alla crisi del 2008, torna a scendere, la disoccupazione è al 5%. Punkt.

C’è dietro questo ragionamento una convinzione teorica, un calcolo politico e una speranza: se vuole avere una qualche speranza di vincere alle prossime elezioni la Spd deve essere in sintonia con l’elettorato tedesco convinto (dalla classe media alla classe operaia) che solo con una finanza in ordine fa aumentare la stabilità e il benessere. Se questo è vero, la Spd non appoggerà mai un governo che violi i parametri di Maastricht. L’Italia è già fuori fin dall’inizio dal parametro del debito che continua salire, figuriamoci se può sfondare anche la regola del disavanzo. Punkt.

Si è detto e scritto più volte che Matteo Renzi è rimasto in panchina mentre si giocava la partita sul futuro della Grecia e dell’euro. In campo c’erano, in ordine di importanza, Mario Draghi, Barack Obama, Angela Merkel e François Hollande. Il ruolo chiave di Draghi del resto consigliava al capo del governo italiano di tenere il profilo basso. L’altra circostanza, ancor più strutturale, è che l’Italia non è ancora in grado di giocare un ruolo autonomo perché l’economia è troppo debole e la finanza pubblica non è affatto risanata. Tanto che per evitare la tagliola dell’Iva e delle accise prevista in caso di aumento delle spese, bisogna trovare al più presto ben 20 miliardi.

Il governo, dunque, si trova davanti a quella stangata che è stata rinviata per due anni, prima da Letta poi dallo stesso Renzi, spostando in avanti la clausola di salvaguardia. L’idea che possa rinviare ancora non passa nemmeno per l’anticamera del cervello a Schaeuble al suo paggio olandese Dijsselbloem. Come può Renzi illudere i suoi seguaci e il resto degli italiani che adesso è più facile proporre alla Merkel uno scambio tra flessibilità e riforme? Lo sfondamento avverrà subito (se non è già avvenuto) le riforme avranno effetto tra qualche anno. La riposta tedesca è quasi ovvia: nie und nimmer, mai e poi mai.

Se tutto questo chiacchiericcio che già circola dentro e fuori il Palazzo avesse una qualche consistenza, il governo avrebbe già dovuto mettere in campo un coraggioso intervento sulla spesa pubblica. Cosa che non è avvenuta negli anni scorsi: nonostante gli alti lai degli enti locali, dei sindacati, degli statali, dei magistrati, degli insegnanti, dei registi di Cinecittà e di tutti i ceti assistiti, la spesa pubblica corrente è aumentata da quando sono stati aboliti i tagli lineari. L’unica spesa crollata (si è dimezzata in rapporto al pil) è quella per gli investimenti. E ciò ha aggravato la crisi. Questo lo sa chi ha analizzato le cifre dal 2009 ad oggi, come ha fatto Massimo Bordignon sulla voce.info. Un’analisi alla quale nessuno degli economisti da talk show o nessuno dei consiglieri di palazzo Chigi ha mai replicato, perché è la pura, amara verità.

Dunque, se Renzi volesse avanzare una ipotesi di sfondamento del deficit (ma in in caso sarebbe meglio evitare una sonora quanto scontata ritirata), non dovrebbe mettere sul piatto della bilancia riforme di medio periodo dall’esito incerto, ma tagli immediati e certi alla spesa pubblica corrente. Hanno un effetto negativo sulla crescita? Non scherziamo. In ogni caso avrebbero un impatto minimo rispetto alla spinta che verrebbe dall’abbassamento della pressione fiscale. Come dicono i manuali di politica economica, e soprattutto come suggerisce il buon senso che esiste, anche se si è nascosto per paura del senso comune.

Stefano Cingolani


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