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Ecco l’origine della tentazione manettara del Pd

Il pandemonio scoppiato nel Partito Democratico, divisosi nella votazione al Senato con la quale è stata respinta la richiesta della magistratura di Trani di arrestare, sia pure a domicilio, l’alfaniano Antonio Azzollini, accusato anche di talune valutazioni e decisioni assunte quando era presidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama, dimostra che il lupo del giustizialismo può perdere forse il pelo ma non il vizio.

Sono passati ormai quasi un quarto di secolo dalla chiusura formale del Partito Comunista Italiano, sotto le macerie del muro di Berlino, e otto anni dalla fusione, nel Pd oggi guidato da Matteo Renzi, di ciò che rimaneva dei comunisti e dei democristiani di sinistra, ma l’identità e la mania manettara dei politici provenienti dal Pci è rimasta la stessa. Anche sotto questo profilo, che non è certamente secondario per la valutazione di una forza politica, e per la sua capacità di saper coniugare il rispetto della legalità e l’autonomia dalla magistratura, specie da quella inquirente, il Pd si è rivelato quell’”amalgama mal riuscito” denunciato o ammesso subito da Massimo D’Alema, che peraltro vi ha molto contribuito prima di venire rottamato da Renzi.

Le “scuse” chieste dalla vice segretaria del Pd Debora Serracchiani, di provenienza comunista, per il no votato a scrutinio segreto da molti suoi compagni di partito all’arresto di Azzollini e la difesa fatta invece di quel no dall’altro vice segretario Lorenzo Guerini, affettuosamente chiamato dall’amico Renzi “Arnaldo” per le sue somiglianze caratteriali e culturali con l’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani, sono la dimostrazione più lampante dell’avvilente situazione di un partito oberato dal suo passato, e dalla paura di sfidare i professionisti dell’anticorruzione, simili in tutto e per tutto a quelli che Leonardo Sciascia definì i professionisti dell’antimafia.

La situazione della sinistra è putroppo ferma a quel giorno del 1993, impietosamente raccontato più volte dall’allora capogruppo democristiano della Camera Gerardo Bianco. Nel cui ufficio si svolse un incontro fra i segretari del suo partito, Mino Martinazzoli, e del Pci Achille Occhetto, assistito dal capogruppo D’Alema. Si era alla vigilia della presentazione parlamentare e della fiducia al governo di Carlo Azeglio Ciampi, ma anche delle votazioni sulle autorizzazioni a procedere contro Bettino Craxi chieste dalle Procure di Milano e di Roma.

Occhetto chiese a Martinazzoli come prova di cambiamento del clima politico, oltre che della maggioranza, una posizione ufficiale della Dc contro il leader socialista, e vecchio alleato dello scudocrociato. Martinazzoli ritenne la richiesta improponibile perché ogni parlamentare doveva essere lasciato libero di valutare autonomamente le carte giudiziarie, senza ricevere ordini o direttive di partito. E tale fu poi il senso dell’intervento svolto in aula dal capogruppo Bianco, prima che la Camera bocciasse a scrutinio segreto gran parte delle richieste della magistratura.

La reazione dell’allora Pds-ex Pci fu il ritiro, per protesta, dei suoi ministri dal nuovo governo. Una decisione alla quale si allineò anche Francesco Rutelli, che allora rappresentava il partito cosiddetto verde. Seguì persino la rinuncia volontaria del Parlamento, con tanto di modifica costituzionale, alla parte dell’immunità riguardante l’autorizzazione a procedere nelle indagini. Rimase solo la parte relativa all’arresto, che i post-comunisti, se potessero, abolirebbero volentieri per consegnare tutta intera la politica alle valutazioni, alle decisioni, agli errori e ai pasticci degli uffici giudiziari, di cui sono purtroppo piene le cronache.


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