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Cosa (non) farà Grasso per la riforma del Senato targata Renzi e Boschi

Ora quindi è certo. Il presidente del Senato Pietro Grasso ha annunciato al partito nelle cui liste fu eletto due anni fa, il Pd nel frattempo passato dalla guida di Pier Luigi Bersani a quella di Matteo Renzi, che il governo e la maggioranza non potranno sottrarsi all’obbligo di votare daccapo nell’aula di Palazzo Madama l’articolo più controverso e significativo della riforma del Senato. E’ l’articolo 2, che fa passare il secondo ramo del Parlamento dall’elezione diretta a quella indiretta.

Probabilmente confortato dal fatto di averne prima informato il presidente della Repubblica, Grasso ha esposto le ragioni della sua decisione alla Festa dell’Unità, nei giardini milanesi intestati a Indro Montanelli.

In particolare, il presidente del Senato ha spiegato che l’articolo 2, essendo stato modificato dalla Camera rispetto al testo uscito la prima volta da Palazzo Madama, sia pure con una semplice proposizione, per stabilire che il Senato sarà eletto dai e non nei Consigli regionali, deve essere nuovamente sottoposto al voto di Palazzo Madama. Dove il regolamento stabilisce che possono ritenersi definitivi solo i testi di modifica costituzionale rimasti invariati nel precedente passaggio della Camera.

Se la maggioranza, a causa delle divisioni esistenti nel Pd e della possibile convergenza delle opposizioni con i dissidenti del partito di Renzi, correrà troppi rischi nella partita dell’articolo 2 dovrà cercare di risolvere da sola i suoi problemi. Non potrà contare sull’aiuto del presidente dell’assemblea.

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Nel caso in cui governo e maggioranza dovessero incorrere in qualche incidente nella riapertura dell’articolo della riforma sulla elezione indiretta del Senato, il presidente di Palazzo Madama ritiene che da quel versante nessuno possa prendersela con lui. Anche se Grasso si guarda bene dal dirlo per non aggravare i rapporti già difficili con Palazzo Chigi, dove non gli perdonano di avere sempre nutrito e manifestato riserve sulla riforma, le colpe del pasticcio in cui il governo si trova sarebbero soprattutto della giovane ministra Maria Elena Boschi.

Fu lei alla Camera, come ministra delle riforme e dei rapporti con il Parlamento, a non avvertire i rischi di quel cambio galeotto di preposizione, apparentemente irrilevante, sull’elezione del Senato nei o non dai Consigli regionali.

Ma oltre alla ministra Boschi, e ai suoi collaboratori, su quel passaggio a Montecitorio omise di vigilare da Palazzo Chigi la più stretta collaboratrice di Renzi nella gestione degli affari legislativi. Che è Antonella Manzione, comandante dei vigili urbani di Firenze quando lo stesso Renzi era sindaco.  La sua promozione a dirigente della Presidenza del Consiglio procurò riserve, a dir poco, sui suoi requisiti alla Corte dei Conti. Che tuttavia registrò in seconda battuta il decreto di nomina di fronte all’ostinazione del capo del governo, che come sindaco le aveva già conferito la qualifica burocratica e i gradi di dirigente.

Sola o in compagnia di altri, la ministra Boschi ignorò o sottovalutò in occasione della modifica dell’articolo 2 alla Camera l’opportunità, che forse altri con più esperienza avrebbero avvertito, di sondare preventivamente gli uffici o lo stesso presidente del Senato sul percorso successivo a Palazzo Madama. O forse furono sondate le persone sbagliate.

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Il povero vice presidente leghista del Senato Roberto Calderoli merita un’attenuante nelle pur giustificate polemiche che hanno accompagnato la pretesa di negoziare con il governo il ritiro o la riduzione delle sue centinaia di migliaia e forse anche milioni di emendamenti alla riforma dello stesso Senato reclamando la grazia – peraltro di competenza del capo dello Stato – all’imprenditore Antonio Monella. Che sta scontando una pena di 6 anni di carcere per avere ucciso un ragazzo sorpreso a rubargli l’auto.

In Italia si è trattata una grazia addirittura per l’elezione di un presidente della Repubblica. Accadde nel 1964 col socialdemocratico Giuseppe Saragat, che dovette ricambiare i voti ottenuti dai comunisti graziando un loro ex parlamentare, Francesco Moranino, riparato all’estero dopo essere stato condannato per una strage compiuta nel 1944. Una strage che per la sua efferatezza e ambiguità, essendo stati uccisi  cinque partigiani con il pretesto che fossero in realtà spie fasciste, non aveva potuto ottenere la copertura dell’amnistia post-bellica voluta nel 1946 dall’allora guardasigilli, e storico segretario del Pci, Palmiro Togliatti.


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