La notizia è di quelle difficili da digerire: il gruppo terroristico dello Stato islamico – sempre meno gruppo e sempre più “Stato”, si è impossessato ieri dell’ultimo grande giacimento petrolifero ancora sotto il controllo del governo siriano. Un passo in più verso il controllo di un territorio dove è presente, a vario titolo, la quasi totalità delle potenze mondiali, ma nel quale interessi contrapposti, assenza di unità e mancanza di strategia stanno di fatto consegnando ai drappi neri quel che resta di Damasco e Baghdad.
GLI ULTIMI RISVOLTI
A dare una misura del caos che impera nel Paese del presidente Bashar al-Assad, parte in causa nella guerra civile che dilania la Siria, ma anche in prima fila contro l’Isis, ci sono gli ultimi risvolti. Mentre l’Europa prova a recuperare il tempo perduto e accogliere i rifugiati in arrivo dal Medio Oriente, si discute se e come intervenire militarmente in Siria per fermare le truppe del sedicente Califfato e impedire la fuga di altre persone dai territori siriani. E se per il premier italiano Matto Renzi “le iniziative spot non servono”, per cui l’Italia non si unirà agli strike (come ricorda l’editorialista Stefano Cingolani), i movimenti in Siria si moltiplicano.
LA POSIZIONE DI MOSCA
Venerdì scorso, in un discorso controverso, il presidente russo Vladimir Putin aveva manifestato l’intenzione di dare vita a una coalizione internazionale contro il terrorismo (non si capisce bene se contrapposta o collaborativa con quella a guida americana), attraverso la quale Mosca potrebbe intervenire nei territori occupati dallo Stato islamico a sostegno di Assad o, nel peggiore dei casi, per trovarsi in prima fila per decidere il futuro del Paese nel caso di una sempre più probabile implosione.
Finora, sottolineava ieri Gwynne Dyer su Internazionale, Mosca “si è limitata a inviare in Siria una squadra militare di quelle che solitamente vengono dislocate per preparare l’arrivo di un contingente molto più grande. Ha anche mandato un centro di controllo del traffico aereo e alcune unità abitative per il proprio personale presso una base aerea siriana”.
Questo, rilevava ancora il cronista, “significa probabilmente che i russi si stanno preparando a intervenire per salvare” Assad. “Nei quattro anni di guerra civile in Siria, il Cremlino ha fornito ad Assad sostegno diplomatico, aiuti economici e armi, ma questo non è più sufficiente. Ci vorrà almeno una rapida consegna di armi pesanti, e forse anche l’intervento dell’aviazione russa in sostegno all’esausto esercito siriano”.
LA RICHIESTA DI WASHINGTON
La conferma, secondo i media americani, New York Times in testa, sarebbe già arrivata e ha costretto la Casa Bianca a una reazione decisa. Per il quotidiano della Grande Mela, Mosca avrebbe inviato “military advance team” in Siria e trasportato materiale logistico in uno scalo nei pressi di Latakia. Una circostanza rilevata dall’intelligence Usa, anche attraverso l’ausilio di immagini satellitari.
Per tutta risposta, spiega la Reuters, Washington (che fornirà ai sauditi macchinari per migliorare gli attacchi aerei contro lo Stato islamico, mentre gli “alleati” Qatar e Iraq mettono a disposizione jet e F-16 per bombardare l’Isis) ha chiesto alla Grecia di non concedere a Mosca il proprio spazio aereo per voli verso la Siria. “Ci sono voli regolari diretti dalla Russia alla propria base militare siriana a Tartus e altri diretti a Latakia che stanno portando aiuti umanitari e si occupano di far uscire dal paese i cittadini russi che vogliono andarsene”, ricordava ieri in un post su Formiche.net il blogger Emanuele Rossi. “Ma gli americani con la richiesta ai greci (che per ora non hanno risposto) sembrano temere che si stia creando un ponte aereo per il trasporto di rifornimenti militari (uomini e materiali)”. Una possibilità concreta, visto il precedente ucraino, nonostante le smentite del ministro degli Esteri Sergei Lavrov che ha detto che un maggior coinvolgimento russo nella questione siriana è ancora tutto da valutare.
LA (MEZZA) SVOLTA DI PARIGI
Prova invece a tenere il piede in due scarpe, la Francia, che da oggi invierà voli di ricognizione sulla Siria per preparare futuri raid contro l’Isis. Finora, nell’ambito del contrasto ai drappi neri, Parigi era stata attiva prevalentemente in Iraq per non favorire il regime siriano (vicino all’Iran sciita e dunque poco amato dai Paesi sunniti del Golfo, a loro volta legati ai francesi da corposi contratti di armamenti). Ma, spiegano gli analisti, ad aver fatto cambiare idea all’Eliseo ci sono le preoccupazioni per la crescente influenza dei drappi neri nella regione. E, rileva qualcun altro, anche la voglia di non far indispettire troppo Teheran, ora che la Repubblica islamica potrebbe riaffacciarsi tra i mercati mondiali. Anche se Hollande, spiega Le Monde, ha pure aggiunto che Assad “deve andarsene”, rendendo ancora meno chiara la posizione di Parigi.
I DUBBI DEL REGNO UNITO
C’è poi il Regno Unito. Come racconta il Guardian, il premier britannico David Cameron ha annunciato ieri di avere già iniziato bombardamenti mirati sulla Siria contro gli islamisti e in uno di questi sono stati uccisi due cittadini britannici che si erano uniti ai terroristi. Un incidente criticato dall’opposizione laburista, che – dice la Bbc – chiede conto a Downing Street di quanto accaduto.
GLI ALTRI NODI
Ma non è tutto. Dopo aver deciso di aderire attivamente al fronte anti Isis, la Turchia – aveva spiegato il generale Carlo Jean a Formiche.net -, “dà priorità ad impedire che i curdi colleghino il cantone di Arfil con la Jaziria e a eliminare il PKK, ci sui le milizie curde siriane sono una figliazione. A questo servirebbe la zona cuscinetto che vogliono creare”. Ecco perché, analizza la stampa internazionale, continuano i bombardamenti dell’esercito turco contro le postazioni militari del Pkk. E i miliziani curdi, impegnati anche loro nella lotta allo Stato islamico, avrebbero ucciso una trentina di soldati di Ankara per rappresaglia.