Comprensibili ragioni di galateo istituzionale, chiamiamolo così, impediscono ai presidenti della Repubblica e del Consiglio di confermarlo. O li costringono a smentirlo. Ma la sostanza del lungo incontro svoltosi fra di loro al Quirinale per fare il punto della situazione alla piena ripresa, ormai, dell’attività politica è stata la necessità, sottolineata da Matteo Renzi, che dalla riforma del Senato non si torni indietro, come d’altronde lui stesso dice e fa dire continuamente dai suoi in pubblico.
Per non tornare indietro, l’articolo 2 della legge all’esame della competente commissione di Palazzo Madama, che stabilisce il principio dell’elezione indiretta dei nuovi senatori, da parte cioè dei Consigli regionali, deve rimanere immutato nel testo già approvato dalla Camera. Se il presidente del Senato, Pietro Grasso, ne consentirà invece la modificabilità rifiutando la blindatura del testo reclamata dal governo, e nelle conseguenti votazioni dovessero prevalere le opposizioni esterne e interne alla maggioranza, Renzi si dimetterà. E sarà crisi, alla cui difficile gestione, con lo spettro anche delle elezioni anticipate, il capo dello Stato non potrà sottrarsi.
A Sergio Mattarella, se vuole risparmiarsi questo passaggio, toccherà l’ingrato compito di un intervento di persuasione morale, come si dice in gergo tecnico, sul presidente del Senato perché accetti la blindatura dell’articolo contestato dagli avversari e critici di Renzi, senza continuare a incitare il presidente del Consiglio a cercare un accordo politico dentro e, magari, anche fuori dalla maggioranza. Cosa, questa, la ricerca cioè di un accordo, che al governo riesce difficile sino a quando opposizioni e dissidenti del Partito Democratico potranno continuare a contare sulla possibilità di ottenere da Grasso l’ammissibilità delle modifiche e, comunque, la conferma dell’articolo 2 con votazione. Che potrebbe risolversi in una bocciatura.
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Può darsi che Ernesto Galli della Loggia abbia ragione ad accusare la destra italiana, sul Corriere della Sera, di non avere mai avuto una sua identità nella storia della Repubblica, e di avere potuto nascondere questa realtà per quarant’anni all’ombra della grande forza elettorale della Dc e per altri venti all’ombra di Silvio Berlusconi. Che però – bisogna precisare – diversamente dalla Dc, che la teneva all’opposizione, salvo usarla di volta in volta, quando occorreva, per esempio nell’elezione di qualche presidente della Repubblica, ha associato organicamente la destra ai suoi governi.
Ora che Berlusconi è in crisi, la destra sarebbe rimasta nuda con la sua assenza di identità, nel segno di un ottuso conservatorismo, utile cioè “solo a bloccare riformisti e progressisti, per fermare la sinistra”, o “evitare salti nel buio, come nel 1948”, ha scritto l’editorialista del Corriere ricordando il contributo dato dall’elettorato di destra alla storica vittoria della Dc di Alcide De Gasperi sul fronte popolare della sinistra.
Il limite del ragionamento di Galli della Loggia sta nella presunzione di una sinistra progressista, autenticamente e naturalmente riformatrice, contrastata con pervicacia da una destra di segno opposto. Il guaio della sinistra italiana è invece quello di avere spesso fatto concorrenza alla destra proprio sul fronte della conservazione. A volte, anzi, la sinistra si è fatta addirittura scavalcare dalla destra sul terreno del cambiamento, arrivando per esempio solo dopo di lei a riconoscere la necessità di riformare una Costituzione: quella che ogni tanto Pier Luigi Bersani continua a definire “la più bella del mondo”.
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Il più popolare, certamente, dei presidenti della Repubblica avvicendatisi al Quirinale è stato Sandro Pertini. Di cui non a caso si evocano gesti e parole ogni volta che a un politico in difficoltà, a torto o a ragione, serve essergli paragonato. E’ appena accaduto a Renzi per la sua improvvisa trasferta a New York per la finale tutta eccezionalmente e orgogliosamente italiana degli US open di tennis femminile. Una trasferta simile a quella improvvisata appunto da Pertini nel 1982 per accorrere a Madrid, sia pure con il soccorso diplomatico di un invito del Re, per la finale del campionato mondiale di calcio fra la Germania e l’Italia, risoltasi peraltro a nostro favore.
C’è però un limite a tutto. Anche alla vena comica di Beppe Grillo, che ha paragonato il carcere a lungo subìto da Pertini per antifascismo, e anche quello di Mandela in Sudafrica, all’anno virtuale di detenzione al quale egli è stato appena condannato per diffamazione aggravata, cui gli è peraltro facile incorrere con il suo modo di polemizzare con chi non è d’accordo con lui. Questa volta Grillo non merita neppure la risata che professionalmente gli spetterebbe.