L’idea di tassare i colossi del digitale non è nuova, ma un anno fa Renzi la dileggiò. Gli diedi ragione.
Il succo è: le multinazionali che operano nel mondo della rete, per sua natura extraterritoriale, o le tassi con forza e sistema multinazionale o non ci riesci. Fare una tassa nazionale per un consumo multinazionale significa svantaggiare i cittadini di un solo Paese.
Difatti, funzionerebbe così: se il flusso di ricchezza, dall’Italia, supera i sei mesi di durata e i 5 milioni di euro si applica un prelievo del 25%, direttamente dai bonifici bancari o dai pagamenti con carta di credito. Solo che gli acquisti di applicazioni sono nell’ordine dei centesimi, raramente di pochi euro, e si pagano da un account, appositamente aperto.
Se mi trovo nel Regno Unito e compio un’operazione di quel tipo, con il mio telefono italiano, a quale Paese s’intesta la transazione? Se opero in Italia, ma ho aperto un account negli Usa, chi è che sta comprando e da dove? Complicato, considerato che il virtuale non passa dalle dogane.
Le tifose della tassa sono le compagnie telefoniche, tristi per essere state declassate a facchini di preziose valige altrui. Le stesse compagnie che mantengono il pagamento del roaming europeo, della serie: finché c’è rendita che la concorrenza attenda.
Per tutto questo aveva senso attendere la legislazione europea, di portata almeno continentale (e non è detto che basti). Qui arriva la furbata: l’Italia anticipa la normativa europea, immaginandola sulla scia delle indicazioni Ocse, così si sente autorizzata a iscrivere a bilancio ipotetiche entrate che hanno la seria possibilità di restare ipotetiche.
La Commissione, suppongono gli ideatori, non potrà che inchinarsi, visto che ci limitiamo ad arrivare prima colà ove gli altri ci raggiungeranno. Ammesso e non concesso che sia così, resta che quei miliardi sono ipotetici: mi mettono una tassa del 25% su 90 centesimi? Contabilizzarla e riscuoterla costerà più di quel che vale.
Dicono: la tassa non è sui cittadini, ma sulle multinazionali, e non colpisce i nostri innovatori digitali. Apple non gira per l’Italia cercando di vendere app, sono i consumatori italiani che decidono di usarle, dopo averne acquistato i terminali (tassati).
A chi applico il prelievo? Non a caso sul pagamento e non sull’incasso, quindi su chi paga. In quanto agli innovatori digitali, o hanno già sede all’estero o conviene loro farsi pagare in caciotte e salami, tanto è alta la pressione fiscale e ritardati i pagamenti della pubblica amministrazione. Non sono colpe di un solo governo, ma neanche può sostenersi che la musica sia cambiata. Sta di fatto, comunque, che l’idea satanica è quella di tassare il digitale, laddove sarebbe sensato detestare l’ennesimo anno scolastico analogico.
Agli studenti preleveremo il 25% del pagamento, se il dizionario volessero scaricarlo con una app, mentre li costringiamo a comprare quintalate di libri di testo. Nel mercato digitale avremo qualche problema, ma a tipografie staremo messi che è una bellezza.
Estratto di un articolo più ampio che si può leggere su www.davidegiacalone.it