Interrompo il silenzio, di cui vorrete scusarmi, per informare e al contempo rassicurare Giuliano Ferrara che è già arrivato quassù, prima ancora che se ne svolgessero i funerali di Stato davanti alla vostra Camera dei Deputati, il suo amico ed ex compagno Pietro Ingrao. Esattamente come lui ha auspicato parlandone al Messaggero, appena morto, come del “Papa buono della sinistra”, destinato ad “andare difilato in Paradiso”.
Vi è arrivato infatti a razzo, su una nuvola curiosamente colorata di rosso per qualche capriccio di luce, ma senza l’abito bianco, in verità, del Papa. Vi è arrivato nel solito, anonimo velo svolazzante delle anime, come si usa dalle nostre parti. Voi, d’altronde, con i Papi state facendo laggiù un po’ troppi pasticci. Venerate, oltre a quello vero e regnante, che si è scelto il bellissimo nome di Francesco, quello emerito che si chiama Benedetto e uno tutto laico che si chiama Eugenio. Ora pretendete addirittura che se ne aggiunga un altro, anche lui tutto laico, che di nome peraltro si dovrebbe chiamare Pietro II, essendoci stato di Pietro già uno. E che Pietro, se permettete.
Appena è arrivato Ingrao, gli sono andato incontro, attirato anche da quel colore insolito che gli stava fra i piedi, e gli ho dato il benvenuto. Lui mi ha fissato, poi si è guardato intorno e mi ha chiesto: “Ma dove sono?”. E io a mia volta: “E che, bischero? Non te ne sei ancora accorto? Sei in Paradiso”. E lui: “Ma la luna, la mia luna dov’è?”.
Il poveretto non si rendeva conto che la luna, la “sua” luna sta ben al di sotto di noi, quassù. Tanto al di sotto da non poter essere neppure vista, come del resto non vediamo per fortuna neppure la Terra, di cui ci arrivano solo i rumori, al solito confusi, e i racconti che man mano ci fanno quelli che arrivano qui per merito, ma qualche volta anche per raccomandazione, come penso che sia stato il caso di Ingrao. Ma non per raccomandazione di Ferrara. O forse sì, tramite il Papa emerito Benedetto, di cui Giulianone è devoto quanto lo è Eugenio di Francesco. Oh, quanti pasticci, ripeto, riuscite a fare laggiù anche con i Papi.
Ingrao, in verità, non mi è sembrato convinto delle spiegazioni che gli ho date sulla differenza fra la luna, da lui così a lungo e così tenacemente voluta in vita, e il Paradiso dove ha avuto la grandissima fortuna di arrivare, per quanto non sia stato neppure credente sulla Terra, benemerito solo per essere stato, come ha detto Ferrara, “un mostro di semplicità, spontaneità e ingenuità”. Come sanno essere solo i bambini, che proprio per questo nascono con il passaporto in mano per il Paradiso, perdendolo poi in troppi per strada.
Ad un certo punto, di fronte alle mie insistenze sul fatto ch’egli si trovi ben più in alto di quanto in vita avesse voluto raggiungere, Ingrao mi ha detto: “Ma io mi sarei accontentato della luna, della mia luna, rossa come questa nuvoletta su cui galleggio”.
Lì per lì, francamente, mi è venuta la voglia di dargli uno strattone, di sferrargli addirittura qualche calcetto per curarlo a modo mio di questa strana lunite di cui soffre. Mi sono trattenuto solo per evitare di finire all’inferno, non essendovi da queste parti malattie da dover curare per il semplice fatto che si sta tutti bene. Di calci, poi, neppure a parlarne perché, vuoti come siamo di materia, sarebbero tutti sprecati. Allora mi sono limitato a chiedergli: “Ma perché anche qui vuoi avere i tuoi dubbi?”.
A questo punto lui mi ha sorriso e detto, testualmente, che “questa storia dei miei dubbi va finalmente chiarita”. Mi ha raccontato, in particolare, che i dubbi furono vezzi ai quali egli si abituò in vita da quando gliene attribuirono troppi, e di tutti i colori, per via di una frase pronunciata al primo congresso del partito comunista italiano dopo la morte di Palmiro Togliatti, quando disse ai compagni che non sarebbe stato sincero se si fosse dichiarato persuaso di ciò che gli altri dirigenti avevano sostenuto sulle regole della convivenza interna.
“In verità – mi ha detto alla fine, come per liberarsi finalmente di un intralcio – io di dubbi laggiù ne ho avuti pochi. E se li ho avuti, mi sono durati pochissimo, come giustamente mi rimproverarono i carissimi compagni del Manifesto, che io lasciaci buttare fuori dal partito senza seguirli. E debbo dire che Enrico non dovette neppure faticare molto per convincermi. L’unica cosa di cui continuai a dubitare fu l’opportunità di affidare il ruolo di accusatore ad Alessandro Natta, che al solito esagerò. Come aveva esagerato Togliatti nel 1956 a farmi bere un bicchiere di vino, rigorosamente rosso, nel mio ufficio di direttore dell’Unità, alla salute dei compagni armati dell’Unione Sovietica intervenuti in Ungheria”.
Ma Enrico chi?, gli ho chiesto a proposito della vicenda del Manifesto. E lui: “Berlinguer, Enrico Berlinguer, naturalmente. Con il quale, in fondo, ogni volta che sorgeva un problema, avevo in comune la certezza che gli altri avessero torto”.
“Ma tu, piuttosto, chi sei stato laggiù?”, mi ha chiesto Ingrao. A sentire il mio nome, la sua nuvoletta è diventata ancora più rossa. Ma lui mi ha rapidamente consolato dicendomi di avere sempre avuto di me un’opinione diversa dalla maggior parte dei suoi compagni, che avevano visto una specie di mia incarnazione in Bettino Craxi “scambiando lucciole per lanterne”.
A questo punto debbo confessare che i dubbi sono venuti a me: se le lanterne fossero le mie o quelle di Bettino.
Ghino di Tacco