Kunduz è una città di circa trecentomila abitanti nell’Afghanistan del nord, quasi al confine con il Tajikistan, dove i talebani hanno lanciato due giorni fa una potente offensiva. Questa è una notizia importante e allo stesso tempo preoccupante, perché quella di Kunduz è un’area dove normalmente i Taliban non operano.
Il gruppo islamista è molto più forte nelle zone del sud, quelle che confinano con la regione pakistana del Nord Waziristan. Per esempio, un attacco lanciato per conquistare Kandahar sarebbe stato, per quanto folle, meno sorprendente: Kandahar è ideologicamente una città incline al proselitismo indotto dalla predicazione talebana (la considerano una “città santa”), e come ricorda il giornalista Daniele Raineri, in quella zona i reclutatori Taliban pescano facilmente tra i giovani di etnia pashtun per creare nuove forze. Ma Kunduz che cade è qualcosa di diverso.
La città settentrionale fu l’ultima ad essere liberata dalla tirannia talebana da parte delle forze speciali americane (alleate ai combattenti locali dell’Alleanza del nord). Era il 2001. A quattordici anni di distanza rischia di diventare la prima città caduta nuovamente sotto il totale controllo dei Taliban. Un messaggio importante per l’Occidente e per l’America che sta pensando da tempo di ritirare i diecimila uomini di contingente che ancora restano in Afghanistan. In realtà la decisione, una volontà annunciata da Barack Obama fin dai tempi della sua prima elezione, sta ritardando anche in ragione di quello che è successo in Iraq. Nel 2011 le forze americane furono tirate via dal suolo iracheno: nei quattro anni successivi, la filiale di al Qaeda locale, quella fortemente combattuta dagli americani durante l’occupazione e resa più o meno inerme, s’è trasformata nello Stato islamico califfale.
Ripensare la strategia per evitare che l’Afghanistan faccia la stessa fine “in edizione taliban” è d’obbligo: ancora più, se cade Kunduz. Da ieri girano su Twitter le immagini dei combattenti talebani che imbracciano dei fucili d’assalto Heckler Koch G-3, come quelli che avevano i militari tedeschi di stanza proprio a Kunduz durante la missione Nato in Iraq ( il Feldlager Kundus si chiamava il loro accampamento). La Bundeswehr ha avuto un contingente di oltre cinquemila uomin in Af: fu ritirato nel 2013, dopo dieci anni. La presenza tedesca è legata anche a un tragico fatto noto come “la strage di Kunduz”. I militari tedeschi, in seguito a un furto di due autocisterne di carburante, per evitare che finissero per rifornire i talebani, chiesero il supporto aereo americano: il raid centrò i bersagli, ma uccise anche molte persone che erano corse intorno ai due camion per rubare un po’ di benzina: ci furono 142 morti, e l’episodio si portò dietro le dimissioni a Berlino del ministro e del Capo di stato maggiore della Difesa.
Vedere un militante talebano con in mano un fucile d’assalto che il contingente tedesco aveva “lasciato in eredità” all’esercito afghano e alla polizia antisommossa ─ a cui con un cerimonia formale il 6 ottobre 2013 è stata consegnata la base di Kunduz, quando la zona era una delle più sicure di tutto il Paese ─ è un messaggio per l’intero Occidente. (L’HK G3 è molto diffuso nel mondo, ma è un’arma inusuale per i talebani: per questo l’associazione con la presenza tedesca nell’area è quasi automatica).
Sui giornali tedeschi s’è aperta la polemica sul ritiro ─ la stesse critiche che subisce Obama dal 2011, l’anno del rientro dall’Iraq, in avanti. Inoltre i tedeschi fanno notare come agli Esteri non abbiano troppa consapevolezza di ciò che sta succedendo, come se l’Afghanistan fosse un argomento chiuso. Nonostante un piccolo contingente della Bundeswehr sia ancora presente con compiti di training alla polizia locale a Masar i Scharif, circa 150 chilometri a ovest di Kunduz, un funzionario del ministero degli Esteri di Berlino ha detto alla Bild di aver appreso la notizia dai media e di non conoscere niente sull’evolversi della situazione. Mood che è paradigmatico del generale approccio occidentale alla questione.
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Due attacchi aeri americani, hanno bloccato ieri il tentativo dei talebani di conquistare l’aeroporto ─ secondo l’intell afghana (NDS) nel raid sarebbero rimasti uccisi il leader locale dei ribelli Mawlawi Abdul Salam e altri cento combattenti, ma i Taliban hanno smentito (e nemmeno gli americani confermano). Nell’azione di lunedì notte, i talebani erano entrati in città simultaneamente da più direzioni, liberato compagni dalle prigioni, e costretto le forze di sicurezza locali a convergere a difesa dell’aeroporto: Reuters dice che ci sono cinquemila soldati governativi allo scalo aereo, ma molti sarebbero fuggiti. Qui ora si concentreranno i combattimenti.
Kabul ha inviato i soldati per riprendersi la città, ma agguati e mine lungo la strada stanno rallentando i rinforzi ─ insieme a questi ci sarebbe un numero imprecisato di forze speciali Nato. Il Guardian scrive che le sue fonti locali riferiscono di combattenti che stanno girando ancora liberamente per le strade cittadine, assicurando gli abitanti di non avere alcuna intenzione di colpire i civili, ma anzi li difenderanno ─ è un’azione di propaganda per cercare il sostegno dei residenti.
I talebani sono alla ricerca di una vittoria mediatica che possa rafforzare la posizione del nuovo leader Akhtar Mansour, succeduto al defunto Mullah Omar, dichiarato morto a luglio. La successione alla leadership ha avuto passaggio tesi e complicati: lotte di potere tra le le fazioni interne al gruppo. Alcuni sottogruppi sono stati ammaliati anche dal luccichio del Califfo. I talebani però, hanno sempre dichiarato di opporsi allo Stato islamico riconoscendo solo Omar come “amir al mu’minin”, comandante dei fedeli: la guida spirituale è riconosciuta nel suo ruolo anche da al Qaeda. (Ci sarà pure qualche diplomatico occidentale che userà la distanza ideologica tra IS e Taliban come una sorta di consolazione?).
Kunduz in realtà è nelle mire talebane da maggio (il giornalista della BBC David Loyn raccontò la situazione in un reportage) e dunque l’attacco non era poi così sorprendente. Fu la prima città a finire in mano ai Taliban dopo la ritirata russa nel 1980 e fino al 2001 era la roccaforte settentrionale del gruppo. È un punto simbolico e allo stesso tempo uno snodo di importanza strategica. È ben collegata con la capitale e soprattutto il poroso confine con il Tajikistan rappresenta la rotta principale del commercio illegale di oppio, di cui l’Afghanistan è il maggior produttore al mondo, verso Asia centrale e Europa.
Gli Stati Uniti hanno investito circa 60 miliardi di dollari per sostenere il Paese sia sul piano politico che quello della sicurezza: la caduta di Kunduz è il segno granitico delle enormi difficoltà incontrate.
(Foto: Twitter)