Skip to main content

Turchia, tutti i grattacapi di Erdogan alle prese con l’Isis

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Oltre cento vittime, vicino alla stazione centrale di Ankara. Una dimensione che, al di là di certe ricostruzioni del governo turco, fa pensare a una “dichiarazione di guerra” jihadista, come nell’11 settembre, o nella stazione di Atocha a Madrid, guanto gettato per la “guerra santa” in Europa, o nelle azioni a Londra del 7 luglio del 2005.

Al di là di ogni analisi sui responsabili, il senso dell’azione di Ankara è chiaro: il jihad è entrato in Turchia. Gli analisti turchi affermano peraltro che l’Isis può essere stato addirittura “uno strumento” e ciò sembra verosimile. Strumento, allora, di una destabilizzazione dello Stato turco che avviene dopo che l’Isis non si trova più a proprio agio con il governo di Ankara.

La debolezza mostrata dalla Turchia, la sua incertezza tra il sostegno all’Isis contro il “tiranno” Bashar al-Assad, la risposta imprevista della Federazione russa sulle coste siriane, l’inesistenza geopolitica dell’Ue; tutti questi fattori hanno lasciato la Turchia in un vuoto strategico che prelude alla destabilizzazione jihadista. E più forte sarà il pugno di ferro del regime di Erdogan, tanto maggiore sarà la massa di manovra del jihad.

Peraltro, Ankara ha finora lanciato diversi raid aerei contro le postazioni dell’Isis, fin dalla fine di agosto, e l’azione terroristica potrebbe essere una risposta dei drappi neri alla Turchia, che peraltro gestisce la base di Incirlik, il punto di partenza di tutti gli strike contro il jihad sirio-iracheno.
Qualcuno, poi, diffonde l’idea, non sappiamo quanto fondata, che il presidente Recep Tayyip Erdogan voglia portare la Turchia alla guerra contro la Russia, per liberarsi, nelle more dello scontro bellico, dei nemici interni ed esterni al suo partito Akp.

E per guadagnare magari l’etichetta di “salvatore” della Ue e dell’Alleanza atlantica. Un raggruppamento politico l’Akp che, lo ricordiamo, era stato disciolto dalla Corte costituzionale turca per il rifiuto, nello statuto dell’Akp di allora, della democrazia e del pluralismo.
E’ anche probabile che, dopo l’attentato alla stazione di Ankara, la Turchia possa accettare un ruolo succedaneo rispetto all’Occidente, costringendo quest’ultimo ad accettare la guerra contro i curdi, mentre i turchi potrebbero aumentare la pressione sull’Isis, che pure è ferocemente nemico dei curdi.

E pensare che alcuni politici europei parlano di “armare i curdi” contro il sedicente Califfato. Ora, probabilmente, armeremo una Turchia che farà la guerra ai curdi facendo finta di farla all’Isis. Un paradosso di difficilissima soluzione, questo del nesso tra curdi e Turchia, soprattutto se si ragiona, come in Occidente, in termini di “tiranni” da abbattere e “democrazie” da costruire.

Un errore, lo avrebbe detto Karl Raimund Popper, di tipo, appunto, “costruttivista”. La storia e la politica non sono mattoncini Lego, da spostare o da ricostruire ovunque. Altro dato da non trascurare, si potrebbe pensare ad una sorta di “strategia della tensione” da parte dell’Akp, sempre meno votato dal popolo turco e con un paesaggio economico molto meno favorevole di quello che fece parlare i sempre ingenui occidentali di “miracolo anatolico”.

Ed erano i “nuovi ricchi” delle periferie estreme della Turchia a sostenere l’Akp, mentre l’elettorato urbano era molto meno compatto. Se Erdogan, che passa per essere uno degli uomini più ricchi del mondo, sceglierà lo scontro interno, potrà assumere su di sé tutti i voti che finora sono mancati all’Akp, ma a costo di incendiare il suo Paese.

Ma se si destruttura la Turchia, la Nato non avrà un antemurale, sia pure non del tutto affidabile, verso il Golfo Persico e il Grande Medio Oriente; e se si destabilizza l’area di Ankara il jihad potrebbe arrivare con grande rapidità da noi, in Europa.

E si può immaginare, islamizzata la Turchia, l’isolamento di Israele, che non avrebbe più modo di giocare “il nemico lontano”, l’Akp di Erdogan, contro il “nemico vicino”, l’islam violento palestinese e giordano-siriano.

E, ancora, si può immaginare il nuovo jihad permanente dell’Isis, che non avrebbe più un ambiguo nemico al suo confine occidentale. Un insieme di equazioni strategiche, quindi, da analizzare in serie, non separatamente, come fanno i tecnici occidentali.

×

Iscriviti alla newsletter