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Cosa farà la Cina contro Isis?

Tre giorni fa, durante un intervento al sesto Xiangshan Forum di Pechino, il viceministro della Difesa russo Anatoly Antonov ha tenuto un discorso incentrato sulla necessità di collaborare nella lotta al terrorismo e ha avvisato la Cina di non essere immune dal problema e dunque di dover fare qualcosa di più concreto e coordinato. Antonov, che in questi giorni è molto impegnato a difendere il nuovo ruolo di cui il presidente Vladimir Putin s’è auto-investito, il paladino mondiale anti terrorismo, ha sostenuto che il threat per la Cina arriverebbe dall’Afghanistan, territorio da cui le istanze (e le forze) del Califfato, ma non solo, si diffondono al confinante Xinjiang.

L’uomo di Putin non ha detto niente di nuovo, perché la preoccupazione cinese per la diffusione delle tematiche del radicalismo islamico, anche se non è prioritaria, è nota (rinnovata dalla globalità del messaggio dell’Isis). Pochi giorni fa è stato presentato un nuovo suv-militare cinese, un blindato agile sul genere degli italiani “Lince” (mezzi per altro visti in questi giorni in Siria guidati dalle truppe assadiste, probabile regalo russo, visto che l’Italia aveva anni fa chiuso un contratto di fornitura a Mosca). Il mezzo cinese si chiama “Warrior”, in cinese Yongshi, e secondo la ditta costruttrice BAIC Gruop sarà molto utile per combattere l’Isis.

Dunque la Cina deciderà definitivamente di unirsi nella lotta al Califfato aduna delle due Coalizioni (quella US-led, o quella composta da Russia, Iran, Siria, Iraq e Hezbollah)? Per il momento questa domanda non ha risposta, sebbene le attività diplomatiche di Mosca siano indirizzate anche in questo senso. Una strada che Barack Obama, il wannabe pivot asiatico, non è riuscito a percorrere: coinvolgere Pechino in chiave anti-IS.

UNA VECCHIA QUESTIONE 

«Sono da trent’anni dei free rider e gli è sempre andata bene», disse poco più di un anno fa Obama in una lunga intervista con Thomas Friedman. Il tre volte Pulitzer del New York Times gli domandava quale ruolo potesse avere la Cina nelle relazioni internazionali. Erano i giorni successivi al “go!” alle operazioni militari della Coalizione americana contro lo Stato islamico, e il viceministro degli Esteri cinese, Li Baodong, partecipava “con interesse” alla conferenza parigina che sanciva la creazione di quella stessa coalizione. Il presidente Obama proseguì, con malcelata ironia: «A volte mi chiedo, scherzando, se non sarebbe meglio che gli Stati Uniti fossero come loro, dai quali non ci si aspetta nulla».

Sarà capace, dunque, Putin di scardinare il principio della non-interferenza che regola la politica estera cinese da quando Chou en Lai riunì la conferenza di Bandung nel 1955?

A guidare la politica cinese è un forte senso di pragmatismo, lo stesso che ha fatto venir meno Bandung in occasione dell’invio di soldati cinesi come Caschi blu nella crisi del Sud Sudan: i peacekeeper avevano come compito quello di difendere i pozzi di petrolio, dove Pechino ha riposto fondi e interesse. Il pensiero vale anche per l’Iraq: la Cina prende molto del petrolio iracheno, e il fatto che l’Isis possa intaccare questo equilibrio diventa un pericolo da cui difendersi per la sicurezza energetica cinese. Per questo non c’è stato nessun commento al Consiglio di sicurezza sulla missione in Iraq contro i baghdadisti. Diverso sulla Siria, dove storicamente la Cina ha sempre posto il veto per un’azione anti-Assad, ma sembra più collaborativa se l’obiettivo diventa colpire il Califfato (e le varie forze radicalizzate). Anche se c’è da aspettarsi, eventualmente, più un ruolo logistico che una partecipazione diretta agli attacchi.

IL PROBLEMA INTERNO: IL TURKESTAN ORIENTALE

Tuttavia, la questione legata al radicalismo islamico che preoccupa di più la Cina è di carattere interno, e assume connotati politici più che interessi internazionali o economici. La provincia semi-autonoma del Turkestan orientale, oggi chiamata dalla Repubblica popolare cinese Xinjiang, è abitata dalla corposa minoranza etnica uiguri. Gli uiguri sono un popolo turcofono di religione musulmana composto da nove milioni di persone, che convive nell’area con la minoranza relativa cinese degli Han. La storia indipendentista della regione risale alla prima metà del Novecento con il tentativo delle repubbliche indipendenti del Turkestan e vede svariate operazioni di repressione da parte del governo centrale cinese: le derive verso il jihadismo sono state un passo breve. Diverse organizzazioni umanitarie accusano la Cina di utilizzare la scusa dei gruppi radicali per compiere attività repressive nella regione. La lotta armata di alcune organizzazioni uiguri islamiste, ha comunque colpito la Cina più volte in passato (nel 2013 gli attentati uscirono dalla regione di nord-ovest, dove gli Han sono bersagliati, e arrivarono fino a piazza Tienanmen), e si è rinfiammata dopo la predica del Califfo Baghdadi alla moschea di Mosul il luglio 2014, in cui la guida spirituale del Califfato ha invitato le popolazioni islamiche cinesi a ribellarsi alle oppressioni subite da parte del governo centrale.

Più volte uomini dal passaporto cinese sono stati catturati o uccisi al fianco dell’IS: l’inviato speciale di Pechino per il Medio Oriente Wu Sike ha stimato che ci sono un paio di centinaia di combattenti cinesi tra le file del Califfo. Molti appartengono all’East Turkestan Islamic Movement, ETIM, un gruppo jihadista sunnita classificato come “terroristico” anche dagli Stati Uniti (fu una specie di concessione che l’Amministrazione Bush fece i primi anni di “lotta la terrore” in cambio di informazioni di intelligence fornite da Pechino).

LA RADICALIZZAZIONE NON ARRIVA SOLO DALL’IS

La testa dell’ETIM si nasconde in una cintura tribale a cavallo dello stretto confine con Pakistan e Afghanistan, spesso appena fuori dal suolo cinese. Pochi giorni fa, il governo pakistano ha annunciato di aver eliminato ogni traccia del gruppo all’interno del proprio territorio, ma sembra più un richiamo mediatico in favore dell’alleato cinese (ci sono importanti accordi economici in ballo tra i due Paesi), che una realtà. In queste aree, la diffusione delle tematiche jihadiste è legata anche alla presenza dei talebani (e di al Qaeda). Le intelligence americane e dei paesi dell’Asia centrale concordano nel dire che molti talebani ormai non sono più soltanto afghani o pakistani: in mezzo ci sono uzbeki, tagiki, turkmeni, kazaki, ceceni e daghestani. Queste provenienze hanno creato preoccupazione a Mosca, che da poco ha annunciato la formazione di una task force congiunta con molte delle ex repubbliche sovietiche da cui arrivano quei combattenti. In mezzo ai “talebani esteri”, ci sono anche diversi uiguri. È questo l’argomento su cui Putin prova a far leva per un più attivo impegno cinese: perché se al fascino dell’IS si unisce la nuova offensiva lanciata dai talebani per consolidare la leadership del nuovo capo Mansour, allora per Pechino diventa davvero un problema.

LE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI

Marco Perduca, rappresentante all’Onu del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, a Formiche.net ha detto che l’eventuale scelta interventista cinese rappresenta «uno sviluppo auspicabile visto il suo crescente peso politico ed economico nel mondo» ma il rischio è che «la partecipazione di un paese non democratico, che al posto del “rule of law” impone la “rule by law” (una sorta di fine che giustifica i mezzi)  in azioni che non sono ben inquadrate dal punto di vista della legalità internazionale può andare a complicare ulteriormente uno scenario dove si sovrappongono conflitti e rivalità regionali e trans-nazionali». «Se mai  Pechino dovesse unirsi alle operazioni in Siria, e in particolare se decidesse di spalleggiare le truppe russe ─ aggiunge Perduca ─, occorre che si convochi una sessione speciale del Consiglio di Sicurezza [delle Nazioni Unite] per stabilire chi agisce e dove e, soprattutto, per far cosa» Questo perché, argomenta l’ex senatore italiano, le risoluzioni adottate mesi fa contro i cosiddetti “foreign fighters” non sono più sufficienti a giustificare l’uso così massiccio della forza. «Ammesso, e comunque non concesso, che il problema in Siria sia bombardare a tappeto un po’ dappertutto, senza un coordinamento centrale andremo incontro a danni che, da collaterali, potrebbero fungere da detonatore di conflitti apparentemente non correlati in altre zone dell’Asia», conclude.

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