L’Iran parteciperà ai colloqui che si tengono a Vienna per cercare una soluzione politica alla crisi siriana. È la prima volta che a Teheran, alleato ferreo e combattivo del regime di Damasco, è concesso di partecipare a vertici del genere: prima gli Stati Uniti si erano sempre opposti alla presenza iraniana, trovando sponda in diversi degli altri Paesi invitati (che in questo caso sono Usa, Russia, Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Giordania, Italia, Regno Unito, Francia, Germania e Emirati Arabi: questi avvieranno al tavolo giovedì, l’Iran arriverà il giorno successivo).
LA RIABILITAZIONE DEFINITIVA, NONOSTANTE TUTTO
È la riabilitazione diplomatica definitiva di Teheran, che è stato escluso finora da certi incontri perché ritenuto corresponsabile della situazione siriana: infatti, se l’influenza iraniana in Iraq è conseguenza dell’invasione americana e soprattutto del vuoto creato dall’ideologico e repentino ritiro, oltreché della demografia e del primato politico sciita in Iraq, in Siria la Repubblica islamica sciita è stata da sempre uno sponsor fondamentale assadista, e la sua presenza al fianco del regime ha favorito negli anni successivi alle proteste del 2011 la deriva settaria della guerra.
Gli iraniani, che mercoledì hanno accettato di partecipare, sono stati formalmente invitati dalla Russia, altro alleato storico del governo siriano, dopo che Washington ha tolto le obiezioni dimostrate in passato (fu la Russia, due anni fa, a scongiurare una punizione militare al regime di Damasco che aveva usato le armi chimiche sui civili, e a favorire l’avvio dello smantellamento dell’arsenale di Assad). La decisione arriva circa tre mesi dopo l’accordo nucleare epocale con cui Stati Uniti e altre potenze hanno promesso di porre fine all’isolamento economico dell’Iran in cambio di limiti imposti al suo programma di arricchimento nucleare.
E così, mentre in Siria, sul campo di battaglia, Iran e Russia giocano un ruolo sempre più aggressivo a sostegno di Bashar el Assad (e di quel che resta del governo e del suo Stato), contemporaneamente dentro le stanze dei bottoni austriache cercheranno di trovare una via di mediazione per una guerra che a tutti gli effetti Mosca e Teheran stanno combattendo. E per Teheran battersi per la tomba di Zaynab (mausoleo sacro alla sciismo della terzogenita nata dall’unione del primo imam sciita e della figlia di Maometto, che si trova a Damasco, e che è formalmente evocato dal regime come motivazione settaria e religiosa per combattere in Siria) comincia ad avere un alto costo, visto il numero di perdite, anche di alto profilo.
DISIMPEGNO E INAZIONE
La guerra in Siria ha ucciso un quarto di milione di persone, la maggior parte colpite dal regime, e ha creato una delle più grandi crisi di rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale, inoltre è stata terreno fertile per le ideologie iper-radicali dello Stato islamico. Queste conseguenze hanno portato gli Stati Uniti a cambiare più volte strategia, restando però fedeli alla “dottrina” obamiana del disimpegno (al limite della riluttanza) e cercando di tenere al minimo il livello di coinvolgimento: negoziare con l’Iran, dopo il rifiuto ufficiale del 2014 (che costò pure una figuraccia a Ban Ki-Moon, che prima aveva invitato l’Iran e poi per volontà americana si trovò costretto a ritrattare e cancellare l’invito), è uno dei più importanti tra questi stanchi cambi di strategia,.
Da notare invece, che solo due settimane fa la Guida suprema iraniana, l’aytollah Al Khamenei ha descritto gli Stati Uniti come un nemico permanente della rivoluzione islamica, e ricordato che nonostante l’accordo nucleare, devono essere tenuti a distanza: dunque a Teheran, sponda componente teocratica dello Stato (quella che ne è la guida ultima), nulla è poi così cambiato.
LA FINE DELLA PAX AMERICANA
In un saggio pubblicato recentemente su Foreign Affairs dal titolo “La fine della Pax americana”, Steven Simon e Jonathan Stevenson, hanno scritto che la volontà degli Stati Uniti di allontanarsi dal Medio Oriente è legata sia al momento economico («una politica espansiva nella regione è diventata semplicemente troppo costosa») sia ad «un tentativo di ripristinare la stabilità che aveva resistito per diversi decenni grazie alla moderazione americana». In questo allontanamento può avere un peso anche il venir meno di determinati interessi, come ad esempio la dipendenza energetica: con il fracking gli Usa hanno scoperto di aver in casa risorse che hanno diluito il valore strategico di alleanze storiche regionali come quelle con i sauditi.
E infatti, nonostante le polemiche di Riad (e vari alleati del Golfo, nonché Israele), Washington ha continuato a premere sull’acceleratore della riabilitazione iraniana.
FACCIA A FACCIA (DI NUOVO)
A Vienna, il segretario di Stato americano si troverà davanti un vecchio collega di negoziati: nello stesso scenario che ha fatto da cornice all’accordo sul nucleare, John Kerry rincontrerà al tavolo Jawad Zarif, suo omologo iraniano. In un ritratto sul Foglio, Tatiana Boutourline dà una descrizione efficace del ministro degli Esteri di Teheran: «Zarif è il tipo di rivoluzionario che puoi invitare a cena: ti guarderà dritto negli occhi, converserà con garbo e non cercherà di convertirti alla causa, perché è un uomo di mondo e conosce le regole del gioco». «Il più americano dei politici iraniani» (ha studiato alla San Francisco State University) è l’artefice della mediazione per il nucleare (per questo è stato evocato per il Nobel per la Pace, da condividere con Kerry): è un diplomatico navigato, in grado di districarsi tra i falchi più radicali, anche perché benvoluto dalla guida teocratica, mentre flirta con l’ala moderata politica e popolare; «l’unico uomo che può avere una conversazione con Kerry un giorno e con Khamenei quello successivo, convincendoli entrambi».
Grazie a lui l’Iran è un pullulare di investitori pronti a chiudere nuovi contratti. E grazie a lui (escluso dai due tavoli precedenti sulla Siria, Ginevra I e II) l’Iran può dire la sua sulle sorti dell’improponibile regime di Damasco, principale e più strategico alleato regionale, e tornare a far valere il proprio peso internazionale.
Il suo volto “gioviale” («L’aggettivo con cui viene più spesso descritto», spiega Boutourline) è quello del nuovo Iran-diplomatico che ci troveremo davanti da Vienna in poi: invece, se c’è un gesto che racconterà l’inizio di questo nuovo Medio Oriente post-americano, saranno le sue strette di mano con Kerry.