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Yemen, così Al Qaeda sta vincendo una guerra dimenticata

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La guerra che diversi Paesi arabi stanno combattendo in Yemen contro i ribelli sciiti Houthi (aiutati per procura dall’Iran e direttamente dalle forze del deposto presidente Ali Abdullah Saleh), non arriva spesso alle cronache internazionali. Tra i due gruppi in lotta, spiegano molti analisti, chi sta vincendo è un terzo: l’integralismo violento di al Qaeda, gruppo radicato nel territorio da anni, che sta approfittando del vuoto di potere lasciato dalla guerra civile per espandersi.

Ampie fette del Paese sono adesso comandante dal gruppo jihadista che fu guidato da Osama Bin Laden. «How al Qaeda is rules in Yemen» è il titolo di un saggio pubblicato sull’ultimo numero di Foreign Affairs, che la rivista del Council on Foreign Relations ha dedicato alle difficoltà occidentali nella gestione del potere in Medio Oriente.

UN TERZO DEL PAESE 

Secondo vari osservatori, quasi un terzo dello Yemen è in mano ai qaedisti (che nella regione prendono il nome di Aqap, acronimo di Al Qaeda in Arabic Peninsula). Aqap è da sempre molto potente e rispettata all’interno dell’organizzazione guidata adesso da Ayman al Zawahiri: è la più forte delle varie filiali, ed è l’unica che in questo momento sta ovattando, con le conquiste territoriali, la continua crisi di “identità jihadista” dei qaedisti, costantemente messi in discussione dalla predicazione dello Stato Islamico (al Qaeda e l’Isis sono divisi su diverse questioni sostanziali e dottrinali nell’applicazione del jihad, e questo li rende acerrimi nemici). Inspire, la rivista ufficiale di al Qaeda, difficilmente esce senza almeno un articolo che riguardi Aqap.

I bombardamenti aerei guidati dall’Arabia Saudita, che dovevano riportare stabilità in Yemen e che invece proseguono da mesi senza grossi risultati, hanno risparmiato Aqap per ragioni strategiche; e pure le attività militari degli Houthi hanno fatto altrettanto, perché i ribelli sono concentrati soprattutto a mantenere il territorio conquistato (che si trova nella porzione centro-occidentale del Paese, verso il Golfo di Aden; mentre Aqap controlla una fetta centrale, la provincia di Hadramawat, che va dal confine saudita fino a sud nella città di Mukalla, terzo porto più importante dello Yemen, sul Mar Arabico).

Oltre al disinteresse di questi due attori in guerra, a rafforzare i qaedisti ha contribuito anche la creazione di una fitta rete sul territorio, dove i gruppi tribali locali, essenzialmente sunniti, hanno risposto con apertura al radicalizzarsi dei jihadisti.

UNA NUOVA SIRIA

Katherine Zimmerman, ricercatrice dell’American Enterprise Institute, ha scritto in un op-ed sul Wall Street Journal che lo Yemen potrebbe diventare la prossima Siria (quello stesso vuoto ha infatti aperto spazio pure all’ingresso nel Paese di gruppi filo Isis: il ritorno di funzionari del governo, fuggiti per mesi, è stato accolto a inizio ottobre da quattro attentati suicidi che hanno colpito gli uffici di Aden, in cui si trovavano anche funzionari della Coalizione araba che combatte gli Houthi: attentati che sono stati rivendicati dallo Stato Islamico).

In un libro bianco pubblicato nell’ambito del progetto Critical Threatens dell’AEI, la Zimmerman ha provato a delineare i problemi di counterinsurgency che gli Usa stanno incontrando con Aqap, che sono peggiorati dall’espansione attuale. L’interesse americano nei confronti del gruppo yemenita è alto fin dalla sua nascita nel 2009: Aqap è stata coinvolta in molti degli attacchi internazionali di al Qaeda “post-2001”, ultimo quello al settimanale satirico francese Charlie Hebdo (i due fratelli attentatori si erano addestrati con il gruppo in Yemen). Dallo Yemen potrebbe arrivare, dunque, un’altra minaccia globale.

COME FERMARE AQAP

Il controterrorismo a livello locale è stato affidato ad un mix di operazioni militari coordinate dagli Stati Uniti, ma condotte dal governo di Sana’a (a cui l’America ha concesso corpose forniture militari), e di attacchi aerei con i droni Usa. I dronestrike sono proseguiti anche durante la guerra civile, colpendo nonostante tutto anche figure chiave nella catena di comando, però l’esercito è stato fratturato dal conflitto locale e non è più in grado di essere un partner possibile. La distruzione della base della strategia americana, l’esercito yemenita, crea un problema cruciale per la visione americana, perché secondo la Zimmerman per fermare Aqap non serve tanto colpire i leader, in quanto la forza del gruppo, come già detto, è legata alla capacità che hanno avuto i qaedisti di portare dalla propria parte la resilienza dei clan tribali locali, spesso privati dei propri diritti dal governo centrale. Un esempio di questo: dai dati del World Food Programme delle Nazioni Unite risulta che l’Hadramawat, controllata da Aqap, sia l’unica delle province delle Yemen dove tutti i parametri valutati (acqua, zucchero, olio vegetale, farina, e carburante) sono disponibili: nelle altre si soffrono fame e sete (la situazione in questi giorni è complicata dal passaggio di un anomalo ciclone tropicale sulla penisola araba). Circostanze che non possono che favorire il sostegno locale ad al Qaeda: a ciò bisogna aggiungere il fatto che è stata Aqap a difendere quella ed altre zone dall’avanzata degli Houthi, come raccontato da testimoni locali all’Independent.

Per la Zimmerman, comunque, è proprio in questo momento che gli Stati Uniti devono prendere in mano la situazione, aumentando il proprio coinvolgimento nel conflitto senza limitarsi ad azioni mirate dall’alto, cercando appoggio in quelle fasce di popolazione che sono sia anti governo sia anti Aqap. Poi ricostruire l’apparato di sicurezza. Servirebbe imprimere presenza direttamente sul terreno, circostanza su cui la Casa Bianca sembra al momento riluttante.

I TIMORI USA

Ora, gli Stati Uniti stanno guardando allo Yemen con un’altra preoccupazione: gli attacchi aerei condotti dalla Coalizione guidata dai sauditi, sono accusati di aver ucciso oltre 2500 civili (e prodotto circa 2,3 milioni di persone sfollate, anche per colpa dei loro bombardamenti). In una lettera aperta recapitata il 19 ottobre al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, diversi gruppi umanitari hanno osservato che i raid aerei sauditi hanno colpito scuole e ospedali. Due giorni fa un centro di cura di Medici senza frontiere è stato centrato per errore a Saada, una roccaforte degli Houthi nel nord del Paese. E in un rapporto pubblicato a metà agosto, Amnesty International sollevava la possibilità che tutte le parti in conflitto sul territorio yemenita potessero essere incolpate di crimini di guerra. Washington teme un coinvolgimento, visto che da subito ha fornito supporto logistico, passando immagini raccolte da satelliti e droni a un centro di comando congiunto con Riad.

La questione sta dividendo l’amministrazione americana, e anche la Casa Bianca “è sempre più frustrata”, scrive Politico, ma si trova costretta a restare sulla posizione per due ragioni: la prima è che smettere di passare quelle informazioni ai sauditi potrebbe solo che peggiorare la situazione (se già stanno fallendo gli obiettivi illuminati dal supporto dell’intelligence americana); secondo, Washington non vuole ulteriormente “importunare” Riad, alleato storico già messo alle strette con il deal sul nucleare iraniano e varie riabilitazioni diplomatiche fornite a Teheran (che è considerato dai sauditi un nemico esistenziale). Per il momento la linea ufficiale americana è questa: “noi stiamo aiutando i sauditi sulla logistica, diverso dal fornirgli obiettivi”.

La presenza Usa in Yemen è oggetto di polemiche da lungo tempo: la campagna coi droni ha sì colpito molti prominenti esponenti di al Qaeda, ma talvolta ha causato vittime civili (un paio di anni fa la Reuters pubblicò un reportage fatto tra la popolazione yemenita).



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