A Palermo può accadere veramente di tutto, per strada e nei tribunali. Ha dell’inverosimile la reazione immediata dei pubblici ministeri del processone sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia alla sentenza di assoluzione dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, giudicato per la stessa vicenda, su sua provvidenziale scelta, con il rito abbreviato. Che è tuttavia durato – pensate un po’ – la bellezza di 23 mesi. Una cosa, questa, che dovrebbe bastare e avanzare per valutare a dovere l’amministrazione della giustizia in Italia, in Sicilia in particolare. La regione, peraltro, del capo dello Stato Sergio Mattarella, che in qualità anche di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbe dare una bella e grandissima occhiata sul palazzo palermitano della Giustizia e dintorni.
Diversamente dal capo della Procura, Lo Voi, riservatosi doverosamente di leggere almeno le motivazioni dell’assoluzione di Mannino prima di darne una valutazione, i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, hanno annunciato ricorso. Riproponendosi naturalmente di proseguire imperterriti sulla loro linea di accusa agli altri imputati sottoposti al rito ordinario.
Il processone del quale si occupano, impostato nell’accusa dal fortunatamente ex magistrato Antonio Ingroia, propostosi nelle ultime elezioni politiche addirittura alla carica di capo del governo, è già infelicemente noto per lo scontro consumatosi davanti alla Corte Costituzionale fra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e la Procura di Palermo. Dove pretendevano di gestire le intercettazioni “accidentali” nelle quali era incorso il capo dello Stato, parlando al telefono con l’indagato e poi imputato Nicola Mancino, già ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio della Magistratura, in tempi e modi tali da esporle ai soliti, collaudatissimi rischi di diffusione arbitraria, e persino di ricatti.
Anche dopo la distruzione praticamente disposta dalla Corte Costituzionale quelle intercettazioni rimasero per un po’ al loro posto, bloccate da ricorsi, fra l’altro, di uno degli imputati del processo: il raccomandatissimo, si fa per dire, Massimo Ciancimino, figlio dell’ancora più infelicemente noto Vito. E in qualche giornale già circolavano voci e veline sul contenuto di quelle intercettazioni, relativamente a giudizi che Napolitano avrebbe espresso a carico degli inquirenti.
Accusato di essersi difeso da minacce di morte dalla mafia nel 1992 spingendo le autorità militari e civili dello Stato a trattare con i criminali, Mannino è stato assolto con formula piena da un giudice, Marina Petruzzella, che ora rischierà il solito linciaggio degli altrettanto soliti giustizialisti.
Mannino è stato assolto anche in altri processi di mafia, e in via definitiva. Ma i magistrati non lo hanno mai perso di vista, diciamo così. Neppure come modesto produttore di vino a Pantelleria. Anche se mettesse su una camiceria, finirebbe probabilmente indagato da qualche fantasioso e ostinato pubblico ministero, o sostituto, per commercio mafioso di bottoni e polsini.