Il problema di e attorno all’ex ministro democristiano Calogero Mannino, appena assolto in primo grado dall’accusa di avere voluto, anzi imposto alle autorità militari e civili dello Stato nel 1992, una trattativa con la mafia per salvarsi la vita, e salvarla ad altri minacciati da stragi, sta nella distinzione fra una minuscola e una maiuscola.
La minuscola sta nel fatto che Mannino non ha commesso, come ha sentenziato la giudice di Palermo Marina Petruzzella dopo ben 23 mesi di processo con rito abbreviato, bocciando la richiesta di una condanna a 9 anni di carcere chiesta dai pubblici ministeri. Che sono gli stessi del processone in corso con rito ordinario, sempre a Palermo, e sempre per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, contro altri imputati. Fra i quali il ministro democristiano dell’epoca, Nicola Mancino, poi presidente del Senato e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, due generali e fior di mafiosi.
La maiuscola sta nel Fatto, giornale quotidiano, che guida la schiera dei cronisti, commentatori e analisti giudiziari solidali con l’accusa, convinti – come ha scritto Marco Travaglio senza avere potuto leggere la motivazione della sentenza, come i pubblici ministeri che hanno già annunciato il ricorso all’appello – che “il fatto sussiste”, per quanto la giudice di Palermo abbia stabilito che a commetterlo non sia stato Mannino.
E’ una tesi, questa, sostenuta sulla Stampa anche dal mafiologo Francesco La Licata, reduce da uno scontro a più riprese, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7, in collegamento con Mannino, e fra le contestazioni di buon senso e di buon gusto di Antonio Polito, vice direttore del Corriere della Sera. Una tesi contraddetta onestamente e autocriticamente su Repubblica anche dal non sospettabile Attilio Bolzoni, che ha scritto di una sentenza “implacabile”. Con la quale “crolla il pilastro della trattativa”, ha titolato il Manifesto, anch’esso non sospettabile certamente di pregiudizio nei riguardi della magistratura inquirente di Palermo. E memore della natura centrale attribuita dall’accusa, ai fini della presunta trattativa, all’azione promotrice di un minacciato e impaurito Mannino, in grado di contare anche sulla comprensione e sulla solidarietà del collega di partito Mancino, insediato forse apposta al Viminale, subentrando a Vincenzo Scotti, nel passaggio dall’ultimo governo di Giulio Andreotti al primo di Giuliano Amato, nella torrida primavera del 1992. Che fu contrassegnata dalla strage mafiosa di Capaci, dove persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, e da quella successiva di via d’Amelio, a Palermo, dove persero la vita, su ordine sempre della mafia, il magistrato Paolo Borsellino e la scorta.
Di “mosaico illeggibile” ha infine scritto sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi riferendosi a quello proposto da pubblici ministeri nel processone ancora in corso contro gli altri altolocati imputati. Ma imputati poi di che cosa, non esistendo un reato di trattativa? Imputati, come lo era il povero Mannino, e tornerà probabilmente ad essere in appello, di violenza e minaccia a corpo politico, o qualcosa di simile, avendo l’accusa rispolverato un vecchio articolo del codice penale che non fu adoperato neppure dal regime fascista contro i suoi avversari, com’è stato fatto giustamente rilevare da fior di giuristi scambiati dai travagli di turno per collusi, o quasi, con mafiosi e simili.
La sentenza della coraggiosa giudice di Palermo Marina Petruzzella ha avuto il merito, fra l’altro, di avere smascherato con le loro reazioni il livore e il pregiudizio – essi sì – dei sostenitori ad ogni costo, anche a quello della irrazionalità, di quanti vorrebbero riscrivere la storia del Paese sostenendo, fra l’altro, che la cosiddetta prima Repubblica di stampo andreottiano, forlaniano e craxiano e la seconda di stampo berlusconiano si siano avvicendate in un impasto di sangue, di corruzione e di ricatto mafiosi.
Un altro merito della giudice Petruzzella è di avere un po’ infranto un vecchio e consolidato schieramento mediatico e persino giudiziario, visto che il capo della Procura di Palermo, Francesco Lo Voi, si è ben distinto dai suoi aggiunti e sostituti riservandosi di attendere il deposito della sentenza, e di leggerne bene il contenuto, prima di esprimersi e di prendere le decisioni di sua competenza.
E’ una posizione, questa del procuratore capo di Palermo, non a caso succeduto fra le proteste e i malumori dei giustizialisti a Francesco Messineo, protagonista con Antonio Ingroia del clamoroso scontro con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano davanti alla Corte Costituzionale, sempre a proposito delle indagini sulla presunta trattativa di più di vent’anni fa; é una posizione, dicevo, questa di Lo Voi, civile e rispettosa delle regole e dei buoni rapporti fra organi e uffici dello Stato in un Paese normale. Quale purtroppo l’Italia non sembra essere, visto un ricorso già annunciato da altri pubblici ministeri in un silenzio quasi generale.