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Chi (non) ha vinto a Bologna tra Salvini, Berlusconi e Meloni

In apparenza hanno ragione, e torto, tutti sullo spettacolo offerto a Bologna, sul palco leghista, dai reduci di quello che fu il centrodestra: il quasi ottantenne Silvio Berlusconi, come ha   sottolineato sprezzantemente l’assente Angelino Alfano, compiaciuto dei  fischi che hanno disturbato il leader di Forza Italia,  il 42.enne Matteo Salvini e la 38.enne Giorgia Meloni. Che fanno insieme un totale di poco meno di 159 anni, visto che al povero Berlusconi, diciamo la verità, mancano ancora più di dieci mesi per compiere gli 80 anni sbattutigli in faccia con ben poca creanza dal suo ex delfino e attuale ministro dell’Interno, e capo del sofferente Nuovo Centro Destra. Il quale, dal canto suo, non si è meritato per questo, come forse bastava, ma per motivi più discutibili, legati alla sua azione di governo, il pesante “cretino” gridatogli in piazza da Salvini.

Se a Bologna fossero tornati affiancati sul palco i leader del vecchio centrodestra, tutti più o meno felicemente ancora in vita, la somma anagrafica sarebbe salita a ben 276 anni, con i 79 di Berlusconi, i 74 di Umberto Bossi, i 63 di Gianfranco Fini e i quasi 60 anni – essi sì – di Pier Ferdinando Casini, che li compirà fra meno di un mese.

La media anagrafica dei vertici dell’aspirante nuova edizione del centrodestra è quindi di quasi 53 anni, che sarebbe salita a circa 68 con i vecchi leader. Sotto questo aspetto, un nuovo centrodestra avrebbe tutto da guadagnare, non c’è dubbio. Ma chi può onestamente giurare che i tre protagonisti saliti sul palco leghista di Bologna potranno e vorranno rimanere davvero insieme all’appuntamento elettorale ordinario del 2018, salvo anticipi?

In realtà, a Bologna si è appena giocata la prima non si sa ancora di quante partite del campionato elettorale del centrodestra, vero o presunto che sia. Una prima partita di fronte alla quale possono risultare premature la soddisfazione e la preoccupazione, secondo i gusti e i casi, manifestate da giocatori e spettatori.

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I due Mattei, Salvini e Renzi, si sono affrettati ad esprimere il loro compiacimento. Il primo per avere chiuso da protagonista il raduno, aggiudicandosi “la guida” del progetto del nuovo centrodestra, e il secondo per poter dare all’Unità il titolo, in inglese, di fine all’avventura o allo spettacolo di Berlusconi. Al quale, pure, tanto egli deve la propria crescita, politica ed elettorale, essendo riuscito a ricavare dal cosiddetto Patto del Nazareno con il leader di Forza  Italia il massimo possibile, ed avendo dato al contraente il minimo, o quasi.

Ha ragione, sempre in apparenza, anche Pietro Ignazi a scrivere sulla Repubblica che a Bologna è avvenuto “il passaggio di consegne tra Berlusconi e Salvini”. Un passaggio che potrebbe anch’esso rivelarsi vantaggioso per il Pd guidato dall’attuale presidente del Consiglio, diversamente dalla comprensibile sicurezza propagandistica del Giornale contenuta nell’annuncio che “non moriremo renziani”. Come una volta a sinistra gridavano di non voler “morire democristiani”, pur essendosi  ad un certo punto acconciato il Pci di Enrico Berlinguer ad appoggiare dall’esterno governi di soli democristiani guidati da Giulio Andreotti.

A proposito proprio di accomodamento, appare ragionevole anche la prudenza di Antonio Polito sul Corriere della Sera, convinto che non vi sia stata alcuna “resa” di Berlusconi alla “supremazia leghista” ma solo un suo accomodamento, appunto, alla realtà di questo passaggio della politica. O di quella che ho chiamato la prima di chissà quante partite del campionato del centrodestra. Partita alla fine della quale Salvini è uscito dal campo, secondo la vignetta di Giannelli, sempre sul Corriere, portandosi sulle spalle Berlusconi, e sulle spalle di questi, la sorella dei fratelli d’Italia Meloni.

C’è da vedere ora se il pur solido Salvini, almeno sul piano fisico, potrà portare a lungo quel peso, o se non ne proverà la insostenibilità ben prima di Berlusconi, che bene o male è riuscito a portarsi addosso per una ventina d’anni i suoi alleati, subendone calci ed altri sovvertimenti.

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Da Bologna, con lo spettacolo leghista, a Roma, dove naturalmente ha primeggiato il Papa con il suo forte ammonimento, dalla finestra storica dei Pontefici su Piazza San Pietro, che “rubare” documenti, evidentemente per diffonderli, non è solo un peccato, perdonabile con le solite tre Ave Maria e Pater noster, ma anche un reato. Commesso, però, Santo Padre, prima ancora del giornalista o scrittore di turno, da chi gli fornisce carte, in originale o fotocopia, sottraendole ad armadi e cassetti di custodia.

Papa Francesco ha tuttavia lanciato la sua protesta anche in una direzione che neppure immaginava parlando ai fedeli, e alle telecamere puntate su di lui. In direzione, per esempio, di un ammezzato nei pressi di Porta Pia, dove l’ex magistrato Antonio Ingroia ha sistemato il suo studio legale e sta preparando, fra l’altro, un libro più o meno autobiografico. Giacomo Amadori, su Libero, ne ha raccolto anticipazioni a dir poco inquietanti.

Chi si è doluto, a suo tempo, come lo stesso Ingroia, della distruzione, praticamente imposta dalla Corte Costituzionale, delle intercettazioni giudiziarie nelle quali era “casualmente” incorso l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rispondendo al telefono all’ex ministro democristiano dell’Interno Nicola Mancino, ora sotto processo per falsa testimonianza nel processone di Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, può tornare a sperare. Potrebbe trovarne i particolari proprio nel libro di Ingroia. Credetemi, ci avrei scommesso.

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