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Appunti sul G-20, in chiave “anti-Isis”

Come prevedibile, uno degli argomenti principali del vertice dei G 20 che si è chiuso lunedì ad Antalaya, in Turchia, è stato la risposta al terrorismo del Califfato.

Una premessa, un’opinione. Va subito fatta una premessa dal taglio non prettamente fattuale. È opinione di chi scrive (letta però anche in alcuni fatti passati), che molto spesso questi vertici seguono procedure fumose e protocolli poco concreti, per cui su tutte le volontà espresse in un momento come questo di forte coinvolgimento emotivo (delle opinioni pubbliche, e dunque dei leader) andrà fatta la tara nel tempo: nel senso che vedremo concretamente tra un po’ come si applicheranno le ricette proposte dai Grandi del mondo ─ che essenzialmente sono sempre quelle: aumento del coordinamento di intelligence, copertura più attenta delle “rotte del jihad” che portano i terroristi in Siria (e in Iraq, o Libia), aumento dell’impegno militare ma senza sporcarsi troppo le mani, colpire i finanziamenti dell’IS; collaborare in senso ampio e poco palpabile, ché poi si sa che gli interessi nazionali vengono prima di tutto.

Bonus, i mercati reggono: i mercati finanziari non sembrano essere rimasti sconvolti dai fatti di Parigi, le Borse sono più o meno indifferenti, i titoli dei beni di lusso subiscono una lieve flessione (potrebbero essere i primi a risentire del calo del turismo) e quelli delle aziende produttrici di armi crescono (la finanza è pragmatica, se aumenta l’impegno militare, aumentano le produzioni di queste aziende, che dunque si rafforzano). Una reazione molto diversa da quella di Wall Street post-11/9: ricorda il Sole 24 Ore che ai tempi la borsa di New York restò chiusa per sei giorni e alla riapertura fece segnare cadute continue fino al -11% del 21 settembre 2001 (Bloomberg ha definito il CAC 40, il principale indice di borda francese, «resiliente», una grande parola). Secondo gli analisti, la differente reazione tra Parigi e Washington, è legata al fatto che gli attentati di venerdì sono arrivati a mercati chiusi, e gli investitori hanno avuto tutto il weekend per stabilizzarsi e riorganizzarsi (brutto segno, sembra che ci si stia abituando a certi gesti sempre più parossistici, ma tant’è). Purtroppo è macabro  dirlo, ma se i mercati non subiscono il colpo, quel colpo viene interpretato dai governi come “un po’ meno forte”, perché i governi si reggono in piedi grazie a quei mercati. Si aggiunga a questo che in un sondaggio uscito pochi giorni prima dei fatti di Parigi, soltanto l”8 per cento degli americani (che sono un popolo straziata dal terrorismo) considerava la minaccia terroristica un argomento centrale nel dibattito della campagna elettorale in corso per la presidenza. Risultato: c’è commozione, cordoglio, spirito di condivisione, intenti, poi i fatti…

LA FRANCIA NON È SOLA (A PAROLE)

“Non lasceremo sola la Francia”, dicono i leader mondiali del G 20, poi però se si va a guardare i fatti è difficile trovare reali propositi (almeno propositi, non si parla di concretezza) tra i vari Paesi. La Francia resta per il momento l’unico stato europeo che colpisce in Siria, gli altri si limitano all’Iraq (qualcuno come l’Italia nemmeno colpisce, fornisce soltanto informazioni sugli obiettivi: che in realtà è come colpirli, ma il grilletto non lo tiri tu). Memo per i distratti, quelli che stanno già in trincea ad urlare “ah, non aspettavate altro che una guerra: a che cosa serve bombardare in Siria?”. È praticamente certo che l’attentato di Parigi sia stato studiato dalla Siria, poi “confezionato” in Belgio: la mente dell’operazione sarebbe Abdelhamid Abaaoud, belga di 27 anni, conosciuto anche come Abu Umar Al Baljiki. I francesi gli stanno dando la caccia con droni e osservatori sul campo da diverso tempo: è uno di quei soggetti che è su una killing list governativa, perché considerato pericoloso per la sicurezza nazionale. Non sono arrivati in tempo, l’avessero colpito prima magari l’attentato di Parigi sarebbe saltato; fermo restando che poi sarebbe stato rimpiazzato.

“Aiutateci”, mentre gli altri si girano dall’altra parte. C’è la paura delle ritorsioni, c’è la paura di impelagarsi in grane diplomatiche con la Siria (e adesso con i russi), c’è soprattutto la paura che l’opinione pubblica non possa prendere bene una decisione militare: il gentismo ha battuto le necessità dei governi. David Cameron, il primo ministro inglese che sulla lotta al terrorismo islamico e sulle contromisure socio-culturali da adottare contro le derive radicali dell’Islam è sembrato il più avanti di tutti per lungo tempo, due settimane fa ha dovuto abbandonare l’idea di ampliare le operazioni aree della RAF al territorio siriano. Non tanto perché l’opposizione s’era messa di traverso (là il leader considera Hamas e Hezbollah partner negoziali, ma è un altro discorso), ma perché elementi del suo partito ritenevano la decisione di “mandare i caccia in Siria” poco saggia a livello elettorale. Ha vinto il gentismo, appunto: i leader che si fanno compagni di viaggio degli elettori, e rinunciano alla posizione di guida; si fa quel che vuole e chiede (pensa?) la gente.

Il Bush di sinistra. François Hollande è stato in questi ultimi anni il paladino di un certo genere di sinistra, quella che si vende per pura, perché interpretava la possibilità di “governo” per un’ala che si è ritrovata nel tempo marginalizzati a posizioni di “lotta”, nemmeno troppo ascoltata (e ammesso che quelli volessero al limite governare senza poi diventare opposizione di se stessi). Qua in Italia, dotti maître à penser ci spiegavano che quella francese sì che era una “sinistra vera”, altroché il nostro Matteo Renzi: chissà come si troveranno oggi, dopo che ieri Hollande, davanti alle camere riunite per un’assemblea straordinaria a Versailles (dallo straordinario potere simbolico, Politico ha sintetizzato i sei punti chiave del discorso storico del presidente) ha detto chiaramente che il suo Paese è «in guerra» contro il terrorismo. Sì, Hollande, il simbolo di una certa sinistra, ha usato la stessa semantica di uno dei nemici storici di quella stessa sinistra: George W. Bush, che dopo l’11 settembre dichiarò guerra al terrore (Boom! Corto circuito).

Hollande ha anche chiesto di «far evolvere la Costituzione per agire contro il terrorismo di guerra». Per il presidente sarebbe necessario un intervento sull’articolo 16, che regola i poteri straordinari del presidente in caso di minaccia allo Stato, e sul 36, che riguarda lo stato di guerra e interventi armati all’estero, ha spiegato Polisblog. (L’opposizione, al di là del clima emotivo di coesione nazionale, per il momento chiede di frenare su questi aspetti e non sembra essere d’accordo).

Ma che dice Obama? La mattina dell’attentato di Parigi, il presidente americano Barack Obama era in tv alla ABC a dire che «fin dall’inizio il nostro obiettivo è stato contenere l’Isis e lo abbiamo contenuto» aggiungendo che l’impegno profuso dalla Coalizione guidata dal suo paese, aveva permesso di ridurre e monitorare con più attenzione il flusso di foreign fighters. Poche ore dopo una ventina di foreign fighters di ritorno, insanguinavano le vie della capitale francese. Ricorda Marco Valerio Lo Prete sul Foglio, che la gaffe non è stata molto stigmatizzata dalla stampa internazionale, ma il problema è che non si è trattato di un semplice scivolone. Il Wall Street Journal l’ha detto fuori dai denti: «Alcuni (pochi. ndr) accusano Obama di scarso tempismo, ma la verità è più grave: la frase di Obama è esattamente quello che egli crede, o almeno ciò che vorrebbe gli americani credessero» (Ri-Boom!).

Phony War. Sempre da Lo Prete: «Un numero crescente di analisti ricorre alla categoria della “phony war”, cioè la “guerra fasulla”: quella fase storica, iniziata nel settembre 1939, in cui gli Alleati dichiararono sì guerra a Hitler, ma per mesi si astennero da qualsiasi offensiva o controffensiva degna di questo nome. Essere in guerra ma non fare la guerra, questo è il problema». Tra questi il nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che dice che l’importante è reagire a queste azioni di guerra senza sentirsi in guerra. Secondo il Corriere della Sera il premier Matteo Renzi non vuole «spaventare gli italiani». Per questo resta un passo indietro e, per ora, rifiuta l’ipotesi della guerra. «Con i ministri si è raccomandato (Renzi, ndr): “Prudenza e serietà”. Per questa ragione vengono viste come fuori linea le dichiarazioni della titolare della Difesa Roberta Pinotti, favorevole alla possibilità che il nostro Paese estenda i bombardamenti oltre l’Iraq. Nel governo Pinotti viene ritenuta una brava ministra, ma troppo influenzata dai generali», scrive Maria Teresa Meli.

I volonterosi. Per Hollande è davvero complicato trovare dei partner, dei volonterosi che scelgono di uscire da stabilizzate comfort zone per farsi carico di risolvere una minaccia globale. Agli Stati europei manca una politica Estera comune, un sistema di Difesa comune, un’intelligence inter-europea: questo è un dato ineccepibile, di cui si sente la mancanza in certi momenti come l’attuale. E che fine ha fatto l’asse franco-tedesco? La Cancelliera Angela Merkel, sintetizzando, davanti alla richiesta d’aiuto avanzata da Hollande s’è girata dall’altra parte. Questa debolezza è avvertita a livello internazionale: per esempio, il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov a margine del G 20 ha dichiarato che «un accordo con l’Occidente è impossibile, perché l’Occidente non esiste, sono solo una serie di Paesi divisi tra loro». Una provocazione pesante, che per altro ha velato con un solo colpo anche il faccia a faccia tra Obama e il presidente russo Vladimir Putin: per la stampa quella chiacchierata doveva essere l’inizio (o un altro inizio) del mondo monopolare, dove tutti si stava dalla parte dei buoni contro «il volto del Male», come Obama ha definito il Califfato.

Assad. Il problema, però, è che là in Siria c’è un altro male oltre al Califfato, che si chiama Bashar el Assad, il dittatore che i russi stanno aiutando. Dalle parole di Peskov sembra uscire che la linea di Mosca resterà sempre la stessa, con buona pace di istintivi editorialisti ottimisti. Ma è «tutto più complicato di così se è più complicato di così», ha scritto la professoressa di scienze umana alla University of Miami Susan Haack nel libro “Legalizzare l’epistemologia”. Perché Peskov è criptico e fa il doppio gioco, e infatti ci sono pure segnali positivi che arrivano da Mosca. A margine del G 20 (le cose più importanti avvengono sempre a latere di questi vertici, a prova dell’opinione espressa in apertura di questo pezzo) il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato che «Assad non si ricandiderà alle prossime elezioni in Siria e lascerà entro sei mesi». Secondo il Times of Israel sarebbe stato proprio lo stesso Putin ad invitare il dittatore siriano a fare un passo indietro. Il giornale cita le sue fonti, e aggiunge che al rais siriano è stato dato un ultimatum di 8 giorni (dicasi otto!) : se no ci pensano direttamente i russi alla “sostituzione”. “Sarà vero?”, è il commento poco raffinato ma molto realistico degli analisti. Se fosse, è segno che Mosca ha cambiato la propria linea? Forse, d’altronde è noto che l’alleanza con gli iraniani sul campo di battaglia siriano, non naviga in acque tranquille, e soprattutto, nella pragmatica della situazione a Putin serve: 1) qualche partner utile con cui combattere il terrorismo islamico, che è una vecchia piaga anche russa (vedi Daghestan e poi Cecenia); 2) riabilitarsi a livello internazionale, dopo essere passato da cattivo in più di un’occasione (a proposito del “bastone&carota” moscovita, oggi c’è la riunione del “gruppo di contatto” sulla crisi ucraina).

Strategia contro il Califfo. Secondo Anna Zafesova, giornalista esperta di beghe russe della Stampa, Putin potrebbe aprire alla collaborazione contro l’Isis, solo che tutto questo avrà un costo, ma d’altronde una partnership sembra inevitabile.

Nota interessante: i russi sono nemici del jihadismo, e sono considerati dagli islamici radicali “crociati” come gli occidentali, ma condividono con gli integralisti musulmani le visioni critiche (nemiche) dell’Occidente; per capirci, Komsmolskaya Pravda domenica scriveva che Parigi è stata colpita a causa della sua “orgia di tolleranza”. «Molti russi ─ scrive Zafesova ─ condividono con molti arabi l’idea che gli europei siano dei codardi egoisti dediti solo ai loro (perversi) piaceri, che la Russia periodicamente deve correre a salvare dalla loro debolezza, come fece con Hitler».

«Putin non ha la ricetta magica contro l’islamismo, non più di quanto ce l’abbia Hollande o l’abbia avuta Bush» spiega Zafesova, e aleggia quasi il sospetto che gli occidentali spingano questa sorta di joint venture con l’intento di affidare a lui il lavoro sporco. Putin sarebbe il responsabile delle campagne a tappeto alla barba delle Ong, Putin potrebbe metterci i soldati a terra, tanto per lui dirigere il consenso e soffocare il dissenso non è un gran problema.

La guerra senza soldati. Obama, dal G 20, fa sapere che quello che è successo a Parigi non sconvolgerà del tutto la strategia (che ha già subito alcuni shift ma è fondamentalmente rimasta la stessa): niente uomini a terra, “no boots on the ground”. «Non crediamo che il dispiegamento di truppe americane sia la risposta al problema», ha dichiarato Benjamin Rhodes, vice consigliere per la sicurezza nazionale ai giornalisti presenti ad Antalaya. Titola il Foglio: “La guerra senza stivali non è guerra” (Olé!).

Articolo 5, ultimo appiglio? Hollande potrebbe appellarsi all’articolo 5 della carta di intesa tra i Paesi che appartengono alla NATO. L’articolo prevede che se uno stato dell’alleanza si trova sotto attacco militare, tutti gli altri membri devono rispondere in soccorso. Ora lo scenario è imprevedibile, può succedere che Parigi scelga questa strada, come no: il precedente, in condizioni del genere c’è eccome, lo fece proprio Bush dopo l’11 settembre. A quel punto l’Alleanza Atlantica si troverebbe costretta a studiare e programmare una pianificazione strategica militare comune, diretta come offensiva contro il Califfato. Difficile.

 

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