Quando, nei giornali di una volta, ti chiedevano di scrivere un articolo per commemorare un collega appena scomparso, la prima cosa da fare era una corsa giù in archivio, di norma in un sottoscala, alla ricerca di ritagli e articoli per documentarti. Sì, perché c’è stato un tempo in cui l’archivio era fatto di pezzi di giornale ingialliti che gonfiavano buste di carta ancor più gialle che a loro volta venivano recuperate con velocità e maestria da uomini dal colorito giallognolo anche quello, per via della penombra in cui lavoravano. Adesso, grazie a Internet, è tutto ancora più facile, perfino la memoria. Molto più facile: un nome e cognome digitati in un motore di ricerca, un tasto “Invio” da premere e via che si va. Troppo facile, però, perché questa è memoria minuscola, è succedanea, è memoria Ogm, geneticamente modificata. Insomma, è memoria di serie B.
Proprio per questo, oggi, Internet lo lascerò stare. Lo posso lasciar stare. Quando infatti l’amico Michele Arnese mi ha chiesto se mi andava di scrivere per Formiche.net un ricordo di Mario Cervi, mio ex Direttore e collega, scomparso oggi all’età di 94 anni, il primo pensiero che mi ha attraversato la mente – dopo il dolore che mi aveva già profondamente ferito al cuore – è stato quello di considerarmi un uomo fortunato. Di più, un privilegiato, per il semplice motivo che la mia, a proposito di Mario, è una memoria maiuscola, originale, “biologica”, da Coppa dei Campioni. Insomma, io non devo digitare nulla; e che si fotta anche lo stramaledetto tasto “Invio”. È una memoria vivida, scolpita, che mi consente di non “rinchiudere” un giornalista, un Maestro e soprattutto un Uomo come lui, nell’angusto e pallido squallore della finestra di ricerca di Google. Non mi servirebbe nemmeno. Oggi il mio Google personale ce l’ho tutto dentro che ribolle, che pulsa, che mi porta ad alternare i sorrisi per i tanti “ieri” vissuti insieme con Mario da colleghi, agli sforzi per trattenere le lacrime che accompagnano questo ineludibile “oggi”, uno di quegli oggi che prima o poi arrivano.
Il “mio” Google mi riporta così a mille cose. Iniziando però da un flash, da a un “ritaglio” di memoria di 36 anni fa, quando entrando per la prima volta in punta di piedi, come avrebbe fatto un’anima pia in una cattedrale, in quello che allora si chiamava Palazzo dei Giornali, a Milano, in Piazza Cavour, mi ritrovai in ascensore con un signore dai capelli argentati. Io, all’epoca “mozzo” del giornalismo imbarcato proprio da quel giorno sulla nave corsara di Indro Montanelli, sapevo benissimo chi fosse: era Mario Cervi. Per me, che con la valigia ancora in mano ero appena arrivato in treno dalla mia città di provincia con il sogno del mestieraccio, era come salire in ascensore in compagnia di un monumento. Di lui avevo letto e sapevo ogni cosa: era uno che aveva scritto di tutto, di tutti e che aveva visitato e raccontato come inviato speciale l’intero mondo, iniziando dalla crisi di Suez del 1956. Mario, di me, all’epoca ovviamente non sapeva nulla. Non c’era molto da sapere, del resto. Non so come trovai il coraggio di tendergli la mano e di presentarmi. Ricordo però che, balbettante, ricorsi a un condizionale: spiccicai un “io sarei Guido Mattioni, assunto da oggi alla redazione Province”. Sì, dissi “sarei”, perché di fronte a uno come lui non ero poi così sicuro di “essere”.
Mario ricambiò la stretta di mano, accompagnandola con un benaugurante colpetto sulla spalla e un cameratesco “ti troverai bene, ma ricordati di passare per prima cosa dalla Iside, la responsabile della segreteria di redazione, è lei che ci governa tutti, Direttore compreso”. Lo disse ammiccando, come se io fossi stato uno grande, un collega par suo, uno già navigato. Ma notai soprattutto, per la prima volta, quel sorriso inconfondibile, marchio di fabbrica che nel corso degli anni avrei poi rivisto percorrergli il volto infinite volte: era un’espressione tutta sua, che non ho mai incrociato in nessun altro, straordinario mix fatto di garbo d’altri tempi, di bontà d’animo e di stupore quasi adolescenziale; era una piega della bocca che si portava sempre dietro e che regalava ancora adesso al prossimo. Sì, perché Mario non era un ultranovantenne, come risultava banalmente all’anagrafe, ma piuttosto un ragazzo cresciuto, uno un po’ speciale, uno che non si era ancora stancato di sorridere.
Potrei dire mille altre cose di Mario. Potrei dire della sua invidiabile freschezza di scrittura, mantenuta fino all’ultimo giorno, così come le sue lucidità, memoria, e capacità di ragionare affrontando da un capo la matassa di qualsiasi ingarbugliato problema e arrivando a sciogliertela e dipanartela davanti, arrivando al capo opposto, senza saltare nemmeno il più piccolo nodo. Potrei parlare della sua professionalità quando lo scorso anno, una settimana dopo avergli consegnato copia del mio secondo romanzo, mi richiamò citandone diversi passi, commentandoli a facendomi i suoi complimenti: lo aveva letto tutto, da cima a fondo, cosa che nei giornali non fa più nessuno. Tra colleghi, poi… Ma vorrei anche ricordare le sue umiltà e forza di volontà nel voler prendere parte, a ottant’anni suonati, come se fosse stato l’ultimo garzone di bottega, ai corsi per imparare a usare il più recente sistema informatico di redazione; era il Direttore, allora, e se solo lo avesse chiesto ci sarebbe stato qualcuno, in segreteria, che avrebbe ribattuto al computer i suoi pezzi scritti a macchina. Altrove, ma soprattutto con altri, sarebbe stata la regola. Non con lui, però, non con Mario. Perché sono fatti così i ragazzi che non si stancano di sorridere.