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La lezione d’Israele per combattere il terrore di Isis

Alzare il livello delle misure di difesa e sicurezza in ogni luogo pubblico, colpire la filiera del jihadismo e seminare il vuoto sociale attorno ai terroristi perché, come sostiene Michael Walzer intervistato sul Foglio da Giulio Meotti, la guerra al terrore è “essenzialmente una guerra di polizia” che l’Europa non è ancora pronta ad affrontare. Da Israele, quello che, sempre al Foglio, il politologo Dan Schueftan indica come unico modello positivo di Paese occidentale in lotta contro la jihad, l’Europa può trarre alcuni preziosi insegnamenti che i governi di Gerusalemme hanno imparato durante gli anni di intifada.

DIFESA E ATTACCO

Tra i primi a parlare di modello israeliano per le politiche antiterrorismo francese è stato l’ex capo del Mossad, Shabtai Shavit, al sito conservatore Breitbart. “È necessario trovare il giusto equilibro tra politiche di difesa e di attacco”. Infatti, adottando la sola strategia difensiva “ben presto ci si renderà conto che gli investimenti raggiungono livelli proibitivi”. Per rispondere alla nuova strategia dello Stato Islamico, dopo l’aereo russo abbattuto e gli attacchi a Beirut e Parigi sempre più pronto alla jihad contro gli infedeli non musulmani, Shavit sostiene sia necessario puntare su un’intelligence forte e sostenuta finanziariamente dai governi, pronta ad affrontare la minaccia del jihadismo anche con il supporto di traduttori che operano al fianco della polizia e delle forze d’intelligence. Come accade in Israele dove i componenti delle forze di sicurezze parlano anche l’arabo. Quanti sono i traduttori impiegati in Francia e Belgio nel contro-terrorismo? Pochissimi, dice l’esperto israeliano di sicurezza Alex Fishman al Foglio. Shavit indica tra gli elementi centrali nella prevenzione delle minacce l’adozione di strumenti di sicurezza in ogni luogo pubblico (dai centri commerciali alle stazioni, dai teatri agli stadi) ed una strategia globale che comprenda i curdi, “abbandonati dall’Occidente”, gli arabi moderati ed i raid aerei sulla scia dell’operato francese a Raqqa.

IL MODELLO ISRAELE

Il “modello Israele” per la lotta al jihadismo dell’Isis in Occidente viene suggerito anche da Gregg Roman, direttore del think tank Middle East Forum, che analizza la strategia in sette punti. Al primo posto, come per Shavit, ci sono i controlli: “La maggior parte degli israeliani non sa cosa significa entrare in un teatro di medie dimensioni come quello colpito in Francia senza passare attraverso un metal detector”. David Horovitz, sul Times of Israel, ha raccontato il suo sconcerto nel seguire i fatti di Parigi alla CNN, dove gli esperti di contro terrorismo sostenevano che non fosse possibile proteggere i luoghi pubblici. Barriere, metal detector, guardie di sicurezza: con le politiche attuate dopo il terribile marzo del 2002 oggi, scrive Horovitz, “i kamikaze non possono nemmeno camminare nei nostri teatri e nelle nostre sale da concerto”. Proseguendo nell’analisi, Roman raccomanda controlli supplementari “sulla base della religione, età, genere, eccetera”, come accade all’aeroporto internazionale Ben Gurion considerato tra i più sicuri al mondo.

L’INCITAMENTO ALL’ODIO

E ancora la necessità di colpire l’approvazione sociale positiva che circonda i terroristi rendendo insopportabile l’esperienza nel Paese, l’attacco ai responsabili del reclutamento, del finanziamento, della formazione e dell’istigazione dei jihadisti, la lotta ai centri di incitamento e fomentazione dell’odio e la resistenza ad ogni “rimostranza settaria” in nome del diritto di difesa, al di là di ogni pressione del politicamente corretto. Anche mettendo al bando questi movimenti politici ispirati all’islam anti-occidentale come ha recentemente fatto il premier israeliano Netanyahu con il Movimento islamico. La studiosa israeliana Amira Halperin ha dichiarato al quotidiano fondato da Giuliano Ferrara: “L’Europa deve bandire i predicatori dell’odio, come abbiamo fatto in Israele questa settimana” per evitare che, come accaduto nel Regno Unito, le università si trasformino fucine di terroristi. Infine, conclude Roman, è fondamentale riprendere possesso dei confini nazionali, sulla scia dell’operato israeliano alle sue frontiere. Anche a costo di rivedere gli accordi di Schengen dopo le gravi lacune dell’intelligence francese, caduta vittima dei falsi status di rifugiati rivendicati dagli attentatori. “Il ministero dell’Interno francese ha istituito i controlli di frontiera subito dopo l’attacco”, scrive Roman. “Questo cambiamento dovrebbe essere permanente”.

UNA SITUAZIONE DIVERSA

Il 13 novembre parigino ha poco a che vedere con l’11 settembre americano. Cadute le Torri Gemelle, Al Qaeda non ebbe più gli uomini ed i mezzi per minacciare gli Stati Uniti. Oggi al netto degli allarmismi e delle psicosi, la minaccia di nuovi attacchi dello Stato Islamico in Francia, in Europa e in tutto il mondo occidentale è forte: nuove figure, come quelle dei foreign fighters di ritorno, rappresentano mine vaganti difficilmente individuabili e sempre pronte ad esplodere. Siamo in guerra. Non è stata una semplice ondata di criminalità e terrore: gli attacchi di venerdì a Parigi sono un “atto di guerra”, ha dichiarato il presidente francese François Hollande. Una guerra che, sostiene il ministro dell’Economia israeliano Naftali Bennett, colpisce lo stile di vita “libero e democratico”. Lo stesso stile di vita ripristinato dopo anni di sanguinosi attacchi e rivolte in Israele con politiche equilibrate di difesa e offesa.



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