Sotto le mentite spoglie del conflitto di civiltà contro l’Occidente, in Medio Oriente si sta giocando una partita energetica che sarebbe capace di ribaltare gli equilibri globali: in termini politici, economici e monetari. Da una parte ci sono la Russia e l’Iran, dall’altra gli Usa e l’Arabia Saudita: la Siria è solo il terreno su cui confliggono le due strategie. È un pezzo della terza guerra mondiale, di cui ha più volte parlato Papa Francesco.
Per comprendere il quadro, complesso e confuso, meglio partire da premesse condivise. Il fatto che nel mondo arabo sia endemico il conflitto religioso tra sunniti e sciiti è pacifico. Che, poi, l’Arabia Saudita guidi il fronte dei primi e l’Iran quello dei secondi, lo è altrettanto. Infine, che si tratti delle due maggiori potenze energetiche del Medio Oriente, è parimenti indiscutibile.
L’ALLEANZA USA-ARABIA
Passando al contesto internazionale, è noto che gli Usa abbiano riconosciuto all’Arabia Saudita il ruolo di migliore alleato nell’area sin dai tempi del Trattato di Yalta: il reimpiego in titoli di Stato americani ed in Borsa a New York del surplus petrolifero è stato uno dei driver della stabilità finanziaria statunitense e della forza del dollaro. Di converso, a Yalta non venne definita la collocazione dell’Iran: al paragrafo XIII si stabilì che “I Sigg. Eden, Stettinius e Molotov hanno discusso della situazione in Iran e hanno deciso di risolvere la questione attraverso il canale diplomatico”.
L’ACCORDO CON L’IRAN SUL NUCLEARE
Di recente, il ritiro degli Usa dall’Heartland asiatico, dopo gli interventi in Afghanistan ed Iraq, ha restituito continuità alle aree sciite. Infine, il recentissimo Trattato che ha posto fine al’embargo quarantennale nei confronti dell’Iran, in cambio della sospensione delle attività di arricchimento dell’uranio ha reso nuovamente disponibile la sua capacità energetica sul mercato. D’altra parte, l’isolamento economico di Teheran si stava dimostrando fallimentare: già dal 2008, gli accordi strategici con Russia, Cina, India, Malesia e Sud Africa venivano sbandierati in chiave anti americana.
LA DIATRIBA FRA IRAN-RUSSIA E ARABIA-USA
Iran e Russia, i due colossi mondiali per produzione e riserve di gas, sono stati tra i promotori del Gas Exporting Countries Forum (Gefc). Di questa “Opec del gas”, che si è riunita a Teheran lo scorso 24 novembre, fanno parte Algeria, Iran, Libia, Qatar, Russia, Emirati Arabi Uniti, Bolivia, Guinea Equatoriale, Egitto, Nigeria, Trinidad & Tobago e Venezuela. Sono osservatori Azerbaijan, Olanda, Norvegia, Oman e Perù. In questo elenco manca, e non per caso, l’Arabia Saudita: l’impatto geopolitico di questa organizzazione ribalta il ruolo storico di quest’ultima nel condizionare le strategie mondiali di produzione e di prezzo del petrolio, facendo saltare il collegamento automatico tra questo ed il gas. Il raccordo Arabia Saudita-Usa è appaiato da quello Iran-Russia: una prospettiva dirompente, se si considerano gli accordi intercorsi tra i Paesi Brics e soprattutto la possibilità di decidere modalità di pagamento del gas con strumenti alternativi al dollaro, dall’euro allo yuan, fino all’oro.
IL PROGETTO SOUTH STREAM
Un analogo esercizio va fatto con i rapporti energetici fra Russia ed Europa. E’ risaputo che l’export russo di questi prodotti vale circa la metà del totale. Ed è altresì notorio che gli Usa e l’Unione Europea hanno osteggiato con vigore la prospettiva di una ulteriore dipendenza dell’Europa dal gas russo ed in particolare il progetto South Stream, che avrebbe dovuto raddoppiare i flussi che arrivano in Germania con il North Stream, passando sui fondali del Mar Nero per approdare in Bulgaria e di qui arrivare fino a Vienna e Trieste. Questo progetto, che doveva rappresentare una alternativa all’attraversamento dell’Ucraina, da cui fino ad oggi è arrivata la restante quota degli approvvigionamenti russi all’Europa, è stato definitivamente abbandonato dopo le vicende ucraine e l’annessione della Crimea da parte della Russia.
LA MOSSA RUSSA CON IL TURKISH STREAM
Se le sanzioni dell’Occidente avevano reso impraticabile questo percorso, la alternativa escogitata dalla Russia era stato il Turkish Stream: dai fondali del Mar Nero sarebbe approdato a Kiyikoy, una cittadina turca che si trova sul versante europeo dei Dardanelli. L’annuncio fu dato dallo stesso presidente russo Vladimir Putin nel corso di una visita di Stato ad Ankara, nel dicembre scorso. Questa mossa ha messo inevitabilmente in difficoltà la Turchia nei confronti degli Usa: a mettere uno stop alla realizzazione del gasdotto è stato provvidenziale il recentissimo incidente di frontiera tra aerei militari di Turchia e Russia, in cui è stato abbattuto un Sukhoi-24 che aveva invaso lo spazio di Ankara. Anche se a caldo da parte degli operatori russi è stato affermato che il blocco delle relazioni economiche con la Turchia “is not an option”, sta di fatto che il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov non ha effettuato la visita già programmata per questi giorni ad Ankara.
SIRIA, CROCEVIA DI DUE ROTTE ENERGETICHE
Per un incidente alla frontiera tra Turchia e Siria, dove sta la Russia sta intervenendo per difendere il regime del Presidente Assad, sfuma così “l’unica rotta” meridionale per far affluire il suo gas all’Europa. La Siria, a sua volta, è divenuto il terreno su cui si confrontano altre due rotte energetiche, incompatibili tra loro: la prima viene da Oriente, verrebbe alimentata dal gas dell’Iran e dal petrolio dell’Iraq, e sfocia direttamente nel Mediterraneo; la seconda proviene da Meridione, verrebbe alimentata dal gas del Qatar, attraversa la Giordania e la Siria per proseguire fino in Turchia e si qui giungere in Europa. Tramontata la realizzazione del gasdotto Nabucco, per via dell’insufficiente capacità dei campi che avrebbero dovuto alimentarlo, l’interesse della Turchia è di non essere bypassata dal corridoio energetico longitudinale che va dall’Iran alle sponde della Siria. Considerando la opposizione Usa al progetto Turkish Stream, non può che sostenere il corridoio che corre per latitudine e quindi muoversi di concerto con l’Arabia Saudita, il cui primo obiettivo è impedire il rafforzamento dell’Iran.
LE DIVERGENZE TRA ARABIA SAUDITA E IRAN
Le politiche di sostegno ai vari gruppi etnici e alle appartenenze religiose non fanno che sovrapporsi, strumentalizzare e confondere. Se si armano i peshmerga curdi per combattere l’Isis, dopo aver concesso una ampia autonomia al Kurdistan iracheno che può contare su consistenti riserve petrolifere, si suscita la preoccupazione della Turchia: e se questa non interviene in Siria, perché sceglie il Turkish Stream, si troverà destabilizzata dalla sua stessa minoranza curda. Se si alimentano i risentimenti della componente sunnita verso l’oppressione sciita in Iraq e le diatribe interne alla Siria, si crea una condizione politica che impedisce la realizzazione del corridoio energetico longitudinale e che favorisce invece quello che corre da sud verso la Turchia. Se l’Arabia Saudita non interviene, vedrà inevitabilmente espandersi la Mezzaluna sciita guidata dall’Iran: per combattere servono contractor, una legione straniera di estremisti e terroristi, istruiti alla jihad. Serve uno Stato, l’Isis, per presidiare il territorio.
MIRE E GROVIGLI DELLA FRANCIA
La Russia interviene in Siria per essere comunque parte del conflitto energetico. La Francia, che si era lanciata nel sostegno agli oppositori interni di Bashar al-Assad, come aveva fatto ai tempi della rivolta contro Muammar Gheddafi, ora si trova in una posizione molto difficile, cercando solidarietà e sostegno dopo gli attentati di Parigi, da Mosca a Washington.
CHE SUCCEDE AI PRODUTTORI PETROLIFERI
Per indebolire la Russia con i bassi prezzi del petrolio, anche l’Arabia Saudita soffre: tutti i Paesi produttori sono in difficoltà, si indebitano e vendono asset, mentre gli Usa hanno fatto il pieno con lo shale gas. L’Europa, invece, avendo deciso di non comprare altro gas dalla Russia, ha messo in competizione l’Iran con il Qatar, scatenando la reazione dell’Arabia Saudita che ha messo in mezzo la Siria. Anche la Turchia è combattuta, tra il gas della Russia e quello del Qatar.
Divide et impera: per il tramonto del petro-dollaro c’è ancora tempo.