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La Repubblica, le parole di Mauro e il mantello di Scalfari

Fedele alla premessa, o promessa, fatta in tv a Fabio Fazio di non volere “mai rompere le scatole” alla propria azienda, Ezio Mauro ha finito per togliere ogni curiosità a Giampaolo Pansa. Che su Libero aveva commentato l’annuncio della sua sostituzione alla guida di Repubblica con Mario Calabresi, in odore di grande amicizia e stima con Matteo Renzi, chiedendosi che cosa avrebbe fatto il direttore uscente nei circa 45 giorni mancanti allo scambio delle consegne. Niente. Mauro – par di capire – non romperà “le scatole” al suo giornale allungando le proprie distanze dal presidente del Consiglio e segretario del Pd.

Di queste distanze, con la precisione che lo distingue, Pansa aveva ricordato e indicato come esempi due editoriali. Uno di critica per avere messo in primavera addirittura la fiducia alla Camera sulla nuova legge elettorale, fra le proteste delle opposizioni e i loro appelli inutili al Quirinale, pur di mettere in riga la maggior parte della turbolenta minoranza del suo partito. L’altro, dopo le faticose elezioni amministrative, il 16 giugno, dal titolo inequivocabile di “Matteo senza terra”. Poco era mancato infatti che Renzi perdesse anche la tradizionale regione rossa dell’Umbria, oltre alla Liguria già compromessa in partenza da una spaccatura consumatasi all’interno del partito con la bocciatura di Sergio Cofferati nelle primarie per la candidatura a governatore.

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Non vi sarebbe, secondo Mauro, nessun segreto politico dietro le sue volontarie dimissioni, maturate in mesi di riflessioni con l’editore, con i suoi collaboratori e – ha tenuto a precisare – con il suo predecessore Scalfari, che lo aveva personalmente scelto e voluto al suo posto, proteggendolo poi “con il suo mantello” di fondatore e anima della Repubblica di carta. Anima, perché “Scalfari – ha detto Mauro, riconoscente – è Repubblica”, anche se l’editore si chiama Carlo De Benedetti.

Mauro ha rappresentato le sue dimissioni come una cosa fisiologica, dopo vent’anni di direzione, che certamente non sono pochi, e finiscono per stancare chiunque. Anni ai quali egli ritiene che potranno seguirne, come collaboratore del gruppo, altri felici di frequentazione e d’amicizia con i suoi colleghi di testata, liberi stavolta da vincoli di gerarchia.

L’unica fatica fuori ordinanza che sembra aspettare Mauro nell’ultimo mese e mezzo di direzione è forse il compito di strappare a Scalfari quel “mantello” a Calabresi di cui egli si è mostrato sicuro, nel salotto televisivo di Fazio, pur non essendosene trovata traccia – anche se il conduttore ha voluto evitare di farglielo notare – nel primo editoriale domenicale nel quale il fondatore avrebbe potuto lasciarla.

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Se anche Scalfari sia stato consultato dall’editore prima della decisione e dell’annuncio della nomina di Calabresi, il direttore uscente di Repubblica non ha voluto dirlo, forse solo perché il suo intervistatore neppure questo gli ha chiesto. Ma ha tenuto a precisare di non avere personalmente avuto nella vicenda un ruolo superiore a quello, evidentemente propostogli, di indicare all’editore una lista di dodici possibili suoi successori. Una lista nella quale, proprio per la sua lunghezza, sarebbe stato davvero strano se fosse mancato Calabresi, direttore del giornale – La Stampa – dove lo stesso Mauro era stato direttore fino al suo trasferimento alla guida di Repubblica, nel 1996.

Su una cosa comunque l’amico Ezio ha di sicuro esagerato nella rappresentazione dei fatti e, soprattutto, della storia e della fisionomia di Repubblica. Lo dico con la franchezza di sempre. Non è vero che la sua testata non abbia fatto o voluto “fare politica”, limitandosi solo a raccontarla, interpretarla e commentarla.

Può darsi, per carità, che a lui sia capitato di farla, la politica, involontariamente, inconsapevole dell’influenza che poteva esercitare sulle scelte della sinistra militante. Ma con il suo predecessore accadde più volte, e non a caso, che Repubblica fosse anche un partito, e non solo un giornale.

Ricordo bene, a questo proposito, le cronache mai smentite, di quell’assemblea congiunta dei parlamentari del Pds-ex Pci, nel 1992, in cui l’allora segretario Achille Occhetto indicò la preferenza per Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. Erano momenti di emergenza e acuta tensione, all’indomani della strage di Capaci, che era costata la vita a Giovanni Falcone, e di una serie infruttuosa di votazioni nell’aula di Montecitorio per eleggere il successore di Francesco Cossiga.

Nell’annunciare la preferenza per Scalfaro, che aveva fra l’altro il vantaggio di liberare la Presidenza della Camera per Giorgio Napolitano, un Occhetto davvero franco e spazientito spiegò che il partito non poteva “farsi dettare la linea da fuori”, in particolare dal direttore di Repubblica. Che sponsorizzava l’elezione di Giovanni Spadolini. Uno Spadolini, presidente allora del Senato, tanto convinto di poter davvero salire a quel punto sul colle più alto di Roma da avere diligentemente preparato un bel discorso d’insediamento, destinato metaforicamente solo al cestino.


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