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Big data e privacy, l’Europa fa troppo la balia. Parla Brobst (Teradata)

Mentre Europa e Stati Uniti restano distanti nelle loro posizioni su dati e privacy – una distanza acuita dalla recente decisione della Corte di giustizia Ue che ha invalidato il trattato Safe Harbor bollando gli Usa come “poco sicuri” per i dati dei cittadini europei – e una serie di colossi americani si piega alla necessità di aprire data center in Europa per mitigare i timori degli utenti e delle autorità europee, il guru dei Big data Stephen Brobst, Cto di Teradata ed ex membro dell’Innovation and Technology Advisory Committee di Barack Obama, ci offre un quadro senza veli di come la questione “Big data e privacy” viene vista negli Stati Uniti.

Mr. Brobst, Teradata è la più grande società al mondo esclusivamente focalizzata su data warehousing e enterprise analytics e mette in grado i suoi clienti di offrire servizi che nascono proprio dall’esplorazione dei dati inseriti dagli utenti. Insomma, dai Big data. Che cosa pensa di tutta questa storia del Safe Harbor, della privacy e delle regole? Gli americani ci spiano troppo o gli europei sono troppo ossessionati?

Dopo le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa dell’Nsa le preoccupazioni degli europei sono aumentate e questo è sicuramente giustificato. Ma Nsa a parte i governi europei tendono a esercitare un controllo un po’ rigido sul mercato. Negli Stati Uniti pensiamo che il mercato si auto-regoli e lo Stato non debba intervenire: sono i consumatori a decidere se un prodotto è valido oppure no: è il mercato che decreta il fallimento o il successo. Lo Stato interviene solo se le aziende non si comportano correttamente, ma sono le aziende a fissare termini e condizioni per il loro business. Diranno per esempio: raccogliamo questi dati che ci lasciate con la vostra navigazione e li usiamo in questo modo e per questo motivo. Non rispettano tale impegno? Lo Stato interviene sanzionando le aziende scorrette. Ma non è lo Stato a dettare le condizioni e i modi di fare business. Gli Stati europei tendono a voler dettare queste condizioni, a decidere loro al posto dei loro consumatori. Lei sa come definiscono gli americani gli Stati europei? Nanny States. Non dico che sia vero, ma è questa la reputazione diffusa: gli Stati europei vogliono fare da balia ai loro cittadini.

E’ un po’ ingeneroso…

Ma certo, è eccessivo. E comunque l’estremizzazione di entrambi gli approcci è dannosa. Forse gli Stati Uniti sono lassisti, ma alcuni Stati europei sono un po’ esagerati nel loro interventismo. La Germania, per esempio, ha le regole più severe di tutti sulla privacy. Sono così rigide da non piacere nemmeno ai tedeschi. Se il governo impone come usare e condividere i dati che le aziende hanno, ponendo una serie di vincoli e paletti, queste aziende si trovano in una posizione di svantaggio rispetto ad aziende di altri Paesi che godono di maggiore libertà perché sfruttando i loro dati possono offrire ai consumatori prodotti più rispondenti a quello che i consumatori chiedono. I Ceo tedeschi si lamentano.

Ma se lo Stato non mette dei paletti, i consumatori saranno abbastanza accorti da capire che devono proteggere i dati che non vogliono diventino di pubblico dominio o siano usati per le profilazioni?

In America crediamo che il consumatore sia abbastanza accorto da capire come muoversi nel mondo online e fare le sue scelte sui suoi dati. In Europa mi sembra che i governi non abbiano molta fiducia in questa capacità degli utenti e quindi pensano di dover guidare loro le scelte dall’alto. Forse si potrebbero lasciare i consumatori più liberi e cercare di informarli meglio, per esempio tramite la stampa. Il compito dei giornalisti e dei media è importante. Regole a parte, è ovvio che il tema dei dati è molto delicato. Pensiamo alla smart home. I sensori in casa sono utili, aiutano a regolare temperatura, luci e così via. Ma indicano anche se il proprietario è in casa o no, un’informazione che non deve finire in mani sbagliate.

Lo stesso vale per le smart cars. Negli Stati Uniti ci sono assicurazioni su misura basate sui dati sulle abitudini del guidatore raccolti dai sensori delle auto. Non è un po’ troppo? Ora le assicurazioni vogliono sapere dove andiamo e che cosa facciamo?

Ma è un processo del tutto trasparente: solo chi vuole adotta il modello dell’assicurazione personalizzata basata sui dati rilevati dai sensori. Molti lo fanno perché chi ha una guida prudente è premiato da uno sconto, chi ha una guida rischiosa si vede aumentare il costo dell’assicurazione, mi sembra normale. Certo, se a prendere la macchina non sono più io ma mia figlia e non vuole che io sappia dove va il sabato sera, ho ancora il diritto di chiedere all’assicurazione di vedere quei dati? Di nuovo il tema è spinoso, ma forse la trasparenza è la prima soluzione: il consumatore deve sapere con chiarezza quali sono termini e condizioni del suo contratto, quali dati vengono raccolti, come vengono usati, chi li ha e anche come richiederli se vuole consultarli.

Del resto secondo molti la privacy è sopravvalutata: alle persone non importa di cedere i propri dati online…

Negli Usa diciamo: Se il servizio è gratuito, siete voi il prodotto. E’ chiaro che se usiamo un servizio Internet che non si paga, l’azienda che lo fornisce farà i soldi su qualcos’altro e quel qualcos’altro siamo noi e i nostri dati. L’alternativa è pagare per quel servizio. Lei lo farebbe? La maggior parte delle persone preferisce il servizio gratuito e in cambio consentire il tracciamento dei dati.

Poi magari ci pensa il Garante privacy a sanzionare i comportamenti scorretti.

Certo, ogni azienda deve avere una policy sull’uso dei dati: chi non la rispetta viene denunciato dalle autorità competenti. Ma queste devono intervenire dopo, non prima creando le regole. Le regole le crea il mercato.

Intanto però l’Europa non va in questa direzione e anzi, mentre si tratta per un nuovo Safe Harbor, tanti colossi americani creano data center in Ue, per placare i timori dei clienti europei.

E’ una sciocchezza. Certo, tutti saremo costretti a farlo, anche Teradata. Ma che senso ha spostare i dati in Europa? I dati vanno protetti sempre e ovunque con una forte encryption, metterli in Europa non vuol dire renderli inaccessibili. Lei ha sentito dello scandalo TalkTalk in Gran Bretagna? Dati di milioni di utenti sono stati esposti da un attacco hacker. Ma non erano criptati. La cifratura è fondamentale: certo, ha un costo e non tutte le aziende sono disposte a fare questo investimento. E poi la cifratura forte non piace all’Nsa: dopo, è più difficile spiare.

Infatti gli Stati Uniti hanno una legge che limita l’esportazione di tecnologie per la cifratura (così come per lo spionaggio).

Altre sciocchezze. Vuol dire che saranno i tedeschi, o i cinesi, o qualcun altro a creare tecnologie analoghe.

Teradata che novità ha messo sul mercato oggi?

Di fronte al boom di dati noi proponiamo ai clienti uno storage selettivo. E’ chiaro che non si possono investire somme sempre più gigantesche per conservare tutti questi Big data: perciò i dati vanno segmentati, tra quelli che hanno un valore minore e possono essere conservati con tecnologie anche open source, pur se sacrificando in parte prestazioni e affidabilità, e quelli che hanno invece un valore strategico e vanno conservati con tecnologie di storage più avanzate e costose ma ad altissime prestazioni. Noi la chiamiamo Unified data architecture e la stiamo costruendo in modo che tutte le sue parti siano interoperabili, anche con delle partnership che troverà inedite, come quella con Facebook.

E che cosa fate con Facebook?

Ci siamo impegnati a contribuire allo sviluppo open source e agli strumenti di business intelligence di Presto, un motore di ricerca che Facebook usa per l’analisi di dati interattivi che richiedono di essere scandagliati in modo veloce. Presto è costruito su sistema open source Hadoop e gestisce decine di migliaia di ricerche al giorno su database che arrivano fino a 300 petabyte.

Visto che lei insiste tanto sulla Internet of Things, con la smart home, le smart cars e così via, pensa che queste innovazioni toccheranno anche l’Italia?

Guardi, nella prima era di Internet, quella dei prodotti B2C, l’Italia si è trovata ad essere più lenta nell’adozione delle nuove tecnologie. Non vedo gli italiani primi nella corsa agli oggetti smart. Ma ora che la IoT si declina anche nel B2B, quindi con soluzioni per l’industria, io penso che l’Europa e l’Italia abbiano grandi opportunità, forse superiori a quelle degli Stati Uniti. L’Europa e l’Italia hanno una fortissima tradizione manifatturiera e la IoT è destinata a rivoluzionare ogni aspetto della produzione industriale. C’è la possibilità di trarne enormi benefici – a patto di non dimenticare l’aspetto della sicurezza.


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