Per fortuna, con 55 anni di “mestiere” alle spalle, sono vecchio abbastanza per essere disincantato, ma non abbastanza, o non ancora abbastanza, per non capire dove si fa il giornalismo come ce lo avevano insegnato da giovani e dove invece lo si fa con troppa reticenza. Che non si può accettare neppure per un malinteso senso di buona educazione, o di rispetto umano e professionale per un vegliardo o patriarca del giornalismo quale va giustamente considerato, anche nel dissenso, l’ormai ultranovantenne Eugenio Scalfari. La cui barba bianca sempre ben curata fa tenerezza anche a me, ma senza esonerarmi dall’obbligo, disatteso invece, come vedremo, da Lilli Gruber e – ahimè – anche dal mio carissimo amico Paolo Mieli nella mezz’ora e più d’intervista televisiva, a La 7, che gli hanno fatto sulla non più tanto “sua” terza Repubblica di carta. Dove sta arrivando un giovane direttore, Mario Calabresi, nominato dall’editore Carlo De Benedetti senza consultare il fondatore.
Lo stesso Scalfari si è sentito offeso da questa pur legittima procedura. Tanto offeso da avere deciso a caldo di non scrivere più, o quanto meno, di fronte alle scuse chiestegli dall’editore correndo a casa sua, di non scrivere alla scadenza fissa della domenica, troppo faticosa per lui, alla sua età, con l’obbligo di tenersi sempre aggiornato leggendo per tutta la settimana “un mucchio” di giornali o di articoli. Troppo faticosa per la sua età, ma forse anche per il timore di non potersi sentire in linea se non sempre, abbastanza di frequente con il nuovo direttore, generalmente considerato meno lontano di lui, diciamo così, da Matteo Renzi. Che Scalfari è tornato ad accusare di volere, o di essere costretto dalle inquietanti circostanze politiche, comuni anche ad altri paesi, a “comandare da solo”, ma senza gli opportuni, o adeguati, o necessari “bilanciamenti istituzionali”.
E’ poi subentrato, con apposita visita al soglio, lo stesso Calabresi, peraltro già due volte assunto dalla Repubblica nella propria fortunata carriera ma quando a dirigerla era Ezio Mauro. E ha convinto Scalfari con belle parole, e sane ragioni di convenienza commerciale, a rispettare ancora l’appuntamento domenicale con i “suoi” lettori, in piena libertà e autonomia, anche rispetto al nuovo direttore. Dal quale Scalfari si aspetta tuttavia – ha precisato con la solita astuzia nel suo intervento televisivo – che sappia e voglia mantenere con la necessaria abilità “il manico del ventaglio delle opinioni e posizioni” che avrebbero sempre convissuto nella Repubblica. E di cui, onestamente, si è avvertita la presenza anche di recente proprio per le distinzioni fra i giudizi del fondatore e quelli di altre importanti firme del giornale: per esempio, sui rapporti fra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e la Procura di Palermo, o sull’azione riformatrice di Renzi, “il figlio buono di Berlusconi”, come Scalfari lo chiama condividendo vecchie parole dello stesso Berlusconi.
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Va riconosciuto a Carlo De Benedetti di aver saputo ricambiare astuzia con astuzia. Anche a costo di sottoporsi al rito sempre scomodo delle scuse, egli ha saputo nominare un direttore di suo totale e prioritario gradimento evitando apposta di consultare Scalfari, perché temeva di non ottenerne il preventivo assenso. Che alla fine è arrivato di fatto, ma solo dopo.
Anche a costo di sembrare sgarbato, e di doversene poi scusare, credo che abbia giocato nella condotta di Carlo De Benedetti il lodevole scrupolo di non riaprire, volente o nolente, a Scalfari la ferita di quella firma troppo imprudentemente apposta nel 1971, con più di 700 intellettuali di sinistra, fra i quali il poi pentito Paolo Mieli, ad una lettera-manifesto all’Espresso contro il commissario di Polizia Luigi Calabresi, padre di Mario. Che era accusato dal movimento Lotta Continua di essere stato nel 1969 il responsabile della tragica fine dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato per la strage di Piazza Fontana, nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, e morto cadendo nel cortile della Questura ambrosiana dalla finestra della stanza dove veniva interrogato.
A quella lettera-manifesto – peraltro destinata per quasi vent’anni ad essere solidalmente pubblicata dal Giorno nella ricorrenza della morte di Pinelli, sino a quando non decisi con la mia direzione di interrompere una tradizione che consideravo odiosa – seguì dopo meno di un anno la barbara esecuzione del commissario Calabresi. Che fu ucciso sotto casa come un cane da lottacontinuisti su mandato, per sentenza definitiva di condanna, del loro leader Adriano Sofri.
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È quanto meno curioso – lasciatemelo dire – che sia Lilli Gruber sia Paolo Mieli non abbiano ritenuto di far parlare Scalfari di quella maledetta lettera.
Purtroppo c’è una certa sinistra che non vuole fare i conti sino in fondo con la propria storia, cioè con i propri errori. Quelli, per esempio, dell’indulgenza verso l’estremismo di Lotta Continua dopo il 1968, e di tale compiacimento per le magnifiche sorti del comunismo da prevederne la vittoria, come capitò di scrivere a Scalfari, sul troppo obsoleto capitalismo. Che invece è ancora qui, mentre il comunismo prosegue in Cina in versione capitalistica.