Settantuno persone americane sono sotto processo per aver collegamenti con lo Stato islamico, di questi 56 sono stati arrestati soltanto nel 2015: numero record dall’attentato del 9/11. L’età media di questi soggetti è 26 anni, e per circa l’86 per cento sono di sesso maschile: oltre la metà hanno cercato di viaggiare all’estero (Siria e Iraq) ma sono stati fermati in tempo. Un terzo di loro si crede avesse in mente dei piani per compiere attentati sul suolo americano. Sono questi alcuni dei dati, crudi, che escono dal report “Isis in America: from retweets to Raqqa”, redatto nell’ambito del Program on extremism della George Washington University dal ricercatore italiano Lorenzo Vidino e dal collega Seamus Hughes. Si tratta del più importante lavoro fatto finora sui soggetti statunitensi che sono stati individuati per aver costruito del link con l’Isis, ed è basato su oltre 7000 pagine di documentazioni legali, ufficiali.
UN FENOMENO DIFFUSO
L’influenza della predicazione dello Stato islamico all’interno di numerosi Paesi occidentali, raggiunti non soltanto attraverso “guide spirituali” locali, ma anche tramite internet e i social media, ha alzato il livello del pericolo, rendendo chiunque un potenziale jihadista, vittima della propaganda del Califfato: è questo una delle motivazioni dietro alla creazione dei foreign fighters, i combattenti stranieri arrivati nel suolo siro-iracheno a combattere come soldati del Califfo. Gli Stati Uniti non sono stati immuni: si pensa che solo nel 2015 circa 250 persone abbiano lasciato il paese per unirsi al jihad dell’Isis; 9000 inchieste sono attualmente aperte contro simpatizzati dello Stato islamico. Elementi finiti sotto le attenzioni delle autorità, ma certe volte riescono a sfuggire: è il caso, ultimamente, di Sayed Farook e sua moglie Tashfeen Malik, gli assassini del centro medico di San Bernardino.
Gli elementi studiati nelle 50 pagine di report hanno storie sparse per 21 dei 50 Stati americani: un fenomeno che si diffonde su tutto il territorio. La metà di questi sono stati fermati grazie ad operazioni che hanno coinvolto agenti dell’Fbi (è il Bureau ad occuparsi di queste pratiche. ndr) e all’uso della HUMINT, la Human Intelligence, ossia il ramo delle attività di intelligence che coinvolge direttamente gli agenti a terra (è ritenuto dagli esperti la principale delle attività necessarie per prevenire, termine centrale, le mosse dei terroristi: ne aveva parlato a Formiche.net il Generale Luciano Piacentini, commentando gli attentati di Parigi il 13 novembre).
PROFILI E MOTIVAZIONI
L’analisi delle vite degli attentatori che a metà novembre hanno sconvolto la Francia, colpendo la capitale, riconsegnava, in alcuni casi, per i soggetti coinvolti, profili particolari, legati all’esclusione socio-culturale delle banlieue parigine e di altre città francesi e belghe, spingendo ad una semplificazione: i terroristi sono disagiati sociali. Ma il report della George Washington Un. spiega che questo collegamento non è così diretto. I profili della 71 persone analizzate differiscono ampiamente per razza, età, classe sociale, istruzione, background famigliare. Contesti antropologici dall’escluso, il caso umano, al perfettamente integrato, quasi la metà sono convertiti: quasi tutti sono cittadini americani o residenti permanenti, carte verdi, lo step prima della cittadinanza. L’attualità ci conferma lo studio: Farook, l’attentatore californiano che ha colpito pochi giorni fa, era da cinque anni un ispettore della contea, un figlio di immigrati di origini pachistane, integrato (al di là di qualche screzio sul mondo del lavoro) che aveva raggiunto un impiego statale da circa 70 mila dollari l’anno. Questa eterogeneità, rende estremamente difficile un’analisi sui big data: il terrorismo ispirato dal Califfo non è un fenomeno facile da spiegare, delineare, controbattere, spiegano i ricercatori.
IL RUOLO DEI SOCIAL MEDIA
Secondo il report, i social media e la propaganda via internet giocano un ruolo cruciale nell’ambito della radicalizzazione dei “simpatizzanti” americani, e talvolta sufficiente di per sé a spingere ad organizzarsi per la mobilitazione. Il Program on extremism rivela che ci sono almeno 300 persone attive sui social media con profili pro-Isis: sono loro stessi che in molte circostanze si trasformano in reclutatori per il Califfo, diffondendone la propaganda, interagendo con individui simili a loro, particolarmente inclini alle istanze radicali islamiche, creando l’effetto d’indottrinamento. «Un’Eco online che alla fine permette il salto da guerrieri da tastiera a militanti veri e propri» scrivono Vidino e Hughes. La predicazione dell’imam yemenita di cittadinanza americana Anwar al Awlaki, qaedista e non baghdadista, ha creato una cassa di risonanza talmente ampia che ancora oggi, a quattro anni dall’uccisione (colpito da un missile Hellfire sganciato da un drone decollato da una base segreta della Cia in Arabia Saudita), il 16 luglio di quest’anno, ha fatto da ispirazione per il ventiquattrenne di origini kuwaitiane che ha ucciso cinque Marines in una base per riservisti a Chattanooga, in Tennessee.
Twitter. Il social network preferito per le attività online, è Twitter, dove alcuni account di predicazione e propaganda vengono continuamente chiusi per essere poi riaperti sotto altri nomi, ma con gli stessi contenuti. Secondo il report dell’università di Washington, ci sarebbe una struttura fatta da tre livelli gerarchizzati e integrati: i “nodes“, nodi, farebbero da generatori dei contenuti iniziali (i predicatori veri e propri), mentre gli “ampliers“, gli amplificatori, si occuperebbero soltanto di retweettare i contenuti, e infine gli “sout-outs” che avrebbero il compito di promuovere i nuovi link degli account che vengono chiusi.
CONTATTI FISICI
Ma la radicalizzazione degli americani inclini alle istanze del Califfato non avviene soltanto via web. Esistono infatti elementi che permettono relazioni faccia a faccia, che spesso rafforzano direttamente ciò che i social media hanno creato in via virtuale, rendendo complementari le dinamiche on e off line. Attorno a questi elementi si concentrano le indagini dell’Fbi, in quanto si crede che sono coloro possano aver costruito contatti con elementi che si trovano nelle aree siro-irachene, e dunque potrebbero portare istruzioni e progetti di piani di attacco.
I cluster. Quasi tutte le persone analizzate dal report hanno sviluppato dei cluster fisici, gruppi di incontro e di pensiero tra simpatizzanti estremisti islamici. «Queste dinamiche di gruppo sono comuni anche in diversi Paesi europei, dove gruppi informali spesso formano ai margini delle moschee radicali, o delle organizzazioni salafiti, o dei gruppi di studenti, o semplicemente attraverso l’interazione di conoscenze con persone che la pensano come loro nei quartieri di molte città europee» spiega il report. In questi casi il web è benzina su un fuoco che già brucia. Un esempio, è quello del “cluster” di Minneapolis, bacino di alimentazione di un flusso di somali-americani (106 persone in tutto) che tra il 2007 e il 2009 sono partiti per sostenere la causa degli Shabaab, militanti radicali di ispirazione qaedista della Somalia: con lo sviluppo violento del Califfato, da Minneapolis sono partiti altri 15 uomini verso l’Isis. L’Fbi sta da tempo cercando di arginare questo flusso con un’operazione denominata “Rhino”. Una schema analogo è stato studiato a St. Louis, dove un gruppo di radicali bosniaci-americani si era formato e aveva raccolto piccoli fondi per spedire un combattente in Siria, il quale poi avrebbe ottenuto anche un ruolo di primo piano in una fazione che combatte sotto l’emiro della guerra del Califfato, il potente comandante Omar al Shishani, georgiano. Un ruolo che diventa automaticamente argomento di vanti, di ulteriore propaganda, ingrandendo il peso del gruppo locale.