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Perché sono (quasi) tutti pazzi dell’Iran

Ian Bremmer, esperto di geopolitica e fondatore di Eurasia Group, si è interrogato su quale sia il miglior posto del mondo dove nascere oggi. Tra Usa, Buthan e Iran, ha scelto quest’ultimo, considerato un Paese giovane, pieno di speranze e che con l’imminente rimozione delle prime sanzioni prova finalmente a riprendere in mano il proprio futuro.

Ma Teheran è anche molto altro. Ed è difficile, se non impossibile, comprendere quel che accade oggi in Medio Oriente senza tener conto del suo ruolo centrale. Non è certo un mistero che molti dei fuochi che divampano oggi nella regione siano conseguenza dei rapporti, non buoni, che esistono tra la potenza sciita e i Paesi che rappresentano la corrente maggioritaria dell’Islam, i sunniti. Tensioni che spaziano da Beirut a Sana’a, ma che forse trovano oggi la loro declinazione più drammatica nel caos siriano-iracheno.

Là dove oggi lo Stato islamico semina il terrore, Teheran e alcune petromonarchie del Golfo Persico si combattono senza quartiere da tempo, attraverso una guerra per procura che ha alimentato e talvolta rafforzato strategicamente i drappi neri guidati da Abu Bakr al Baghdadi. Il teatro più articolato è senza dubbio quello di Damasco. Il Paese, governato dal regime alawita di Bashar al-Assad, alleato dell’Iran, vive da anni una profonda crisi interna sfociata in una sanguinosa guerra civile.

Il conflitto, che vede contrapposti l’apparato militare siriano e forze ribelli, ha contribuito a creare le crepe nelle quali si è poi insinuata la veemenza jihadista dell’Isis. In questo gioco delle parti, Teheran è accusata di aver sostenuto, e di continuare a farlo, un dittatore sanguinario che ha usato violenza contro la sua stessa popolazione; Arabia Saudita e Qatar, per citarne alcuni, di aver finanziato in modo opaco alcuni gruppi terroristici – Stato islamico, ma non solo – che poi sono sfuggiti al loro controllo.

La ragione di questa scelta sunnita, oggi criticata dalle potenze occidentali dopo la strage di Parigi del 13 novembre scorso, sarebbe di natura squisitamente geopolitica: l’intento non ancora raggiunto, secondo molti osservatori, era quello di creare una frattura in Siria e Iraq, tesa a favorire la nascita di due Stati.
Il primo, composto da parte dei territori controllati oggi dal “Califfato”, da trasformare in uno Stato sunnita, un “Sunnistan” sotto “controllo” prevalentemente saudita.

Il secondo, invece, sarebbe rimasto a guida alawita e, dunque, sotto influenza iraniana e russa. I nuovi confini avrebbero così dato vita a una sorta di “cuscinetto”, che avrebbe impedito al regime degli Ayatollah di avere una continuità territoriale nell’ambito della cosiddetta “mezzaluna sciita” che va da Teheran, passa per l’Iraq attraversa la Siria e arriva in Libano. Visto dall’occidente, e in particolare dall’Europa, questo scenario spinge oggi a considerazioni di diversa natura.

La più rilevante, in questo momento, è sul rapporto che il Vecchio continente potrà e dovrà intrattenere con un Iran che si appresta a tornare sulla scena internazionale dopo l’accordo sul suo programma nucleare siglato a luglio scorso con il cosiddetto gruppo dei 5+1. Le imprese del nostro Paese, e non solo, guardano con ottimismo alle grandi opportunità che potranno derivare dall’apertura ai mercati della Repubblica Islamica.

Tra Roma e Teheran c’è un feeling che non è mai venuto meno, neanche in questi anni difficili (“sulle questioni internazionali e politiche – ha rimarcato il presidente iraniano Hassan Rouhani in una lunga intervista al Corriere della sera – i leader italiani hanno sempre avuto un atteggiamento moderato nei nostri confronti. Nelle nuove condizioni, l’Italia può essere per noi uno dei partner più importanti”).

In passato primo partner commerciale dell’Iran, l’Italia è dunque uno dei Paesi per i quali si aprirebbero scenari tra i più interessanti, soprattutto nel settore energetico, ma anche in quello manifatturiero, della difesa, della moda e dell’agroalimentare. Dall’altro lato, le elité europee hanno accettato negli anni ingenti investimenti delle petromonarchie.

Roma non fa eccezione. Dalla partnership tra Alitalia e l’emiratina Etihad, all’acquisto di Piaggio Aero da parte di Mubadala l’elenco è nutrito. Si tratta di investimenti oggi criticati – tanto più dopo gli ultimi attentati di matrice islamica, perché, come detto, su certi Stati del Golfo pende l’accusa di aver agevolato per via indiretta il proliferare di alcuni estremismi – ma che hanno un peso.

Questa prospettiva economica non è separata dal contesto internazionale. Non è un caso, rilevano alcuni esperti, che Rouhani abbia trovato prudente annullare la propria visita in Italia e Francia, programmata quasi in concomitanza con gli attacchi jihadisti nella capitale francese.

Così come l’abbattimento dell’aereo da bombardamento Sukhoi-24 dell’aviazione russa colpito il 24 novembre dagli F-16 di Ankara (altro Paese sunnita con forti interessi regionali opposti a quelli dell’Iran) a causa di una nuova “invasione dello spazio aereo turco” non può essere slegato dal complesso risiko siriano-iracheno. L’equilibrio che potrà derivare dal nuovo status di Teheran, nonostante gli entusiasmi, non sarà raggiunto infatti in un giorno, forse nemmeno in qualche anno, e, nel frattempo, darà vita a scosse da non sottovalutare e non solo sul piano geopolitico.

Tra sunniti e sciiti, infatti, la competizione non è solo politica, ma anche economica, sebbene i due blocchi siano per certi versi incomparabili. L’Iran ha un’economia oggi affossata, ma in prospettiva più vitale e ricca di quella del Golfo, troppo incentrata sugli idrocarburi, tuttavia ancora indispensabile.
Anche il loro assetto istituzionale e la loro storia sono diversi. Il compito di Usa ed Europa sarà di tenere insieme tutto ciò. Sono queste le tessere di un mosaico che fatica a comporsi, ma che, per quanto incompleto, può dire molto su come anche i nuovi spazi che l’Iran potrà giustamente ritagliarsi vadano gestiti, da parte occidentale, con la doverosa cautela.


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