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Perché non mi hanno iscritto alla P2 di Licio Gelli

Debbo a un banale contrattempo, lo confesso, la fortuna di non essermi trovato a mia insaputa in qualche appunto di Licio Gelli, se non addirittura nella famosa lista della sua P2.

Erano gli anni in cui lavoravo al Giornale, dove in quel momento non ce la passavamo tanto bene, essendosi Indro Montanelli rifiutato di sottostare ad una specie di sorveglianza economica che volevano esercitare sulla “creatura”, come il fondatore e direttore chiamava il suo quotidiano, gli uomini di Eugenio Cefis. Che lo avevano aiutato nella sua avventura dopo la rottura con il Corriere della Sera diretto da Piero Ottone.

Lo stesso Montanelli, messosi personalmente alla ricerca di nuovi contratti pubblicitari e di crediti bancari per pagare gli stipendi a fine mese, mi confidò una volta di averne trovati, sia pure pochi e di modesta durata, anche grazie a Licio Gelli. Che aveva incontrato con un amico comune. Poi, povero Montanelli, quando scoppiò lo scandalo della P2 – ma i problemi economici del Giornale erano stati nel frattempo risolti con l’arrivo di Silvio Berlusconi come editore – visse mesi e anni d’incubo, temendo l’uso che di quel contatto avrebbe potuto fare Gelli. Nelle cui liste massoniche peraltro era finito anche il nuovo editore del Giornale.

Una mattina mi telefonò Roberto Gervaso per invitarmi nel pomeriggio ad un incontro in un albergo romano con l’allora direttore del Gr 2 Gustavo Selva, mio amico pure lui, e una “delegazione” di personalità argentine che ci sarebbero state presentate da Gelli.

Non per paura o diffidenza, vi assicuro, ma solo perché all’ora convenuta rimasi bloccato per strada, non mi presentai all’incontro, preferendo arrivare puntualmente in redazione all’appuntamento con la solita nota politica. Fui graziato insomma dal traffico.

(ROBERTO GERVASO VISTO DA UMBERTO PIZZI. LE FOTO PIU’ RECENTI)

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Quando venne fuori tutta intera la lista della P2, dopo una lunga e pilotatissima anticipazione di nomi cui l’allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani decise di porre fine autorizzandone appunto la diffusione integrale, con il fiuto che lo distingueva Montanelli fu lapidario nel liquidare subito quell’elenco come un’associazione di aspiranti ad affari e carriere. E lo scrisse, da par suo, ridendo con noi delle “baggianate” che si andavano dicendo e scrivendo sui progetti golpistici del “venerabile” materassaio di Arezzo.

Ma, come al solito, il processo mediatico, e politico, con i rinforzi di una commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da una furente Tina Anselmi, fu più rapido e devastante di ogni processo giudiziario. Tentativo di golpe doveva essere, con tutti quei generali e generaloni dei servizi segreti nella lista, e golpe finì per essere creduto e scambiato da tutti.

Licio Gelli divenne la sentina di tutte le nefandezze della Repubblica. Bastava un suo elogio o una sua allusione per rovinare il malcapitato. Persino il già controverso tema della riforma costituzionale, lanciato nel 1979 dal nuovo segretario socialista Bettino Craxi e di cui si dibatte ancora, divenne un mezzo golpe perché condiviso anche da Gelli in un documento, il cosiddetto “Piano di rinascita”, scambiato per il manifesto di una nuova Repubblica.

(IO, CRAXI, SIGONELLA E RENZI. PARLA ARNALDO FORLANI)

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Fu proprio per dissenso da Montanelli sulla valutazione di Craxi e dei suoi progetti di riforma che Enzo Bettiza e io ce ne andammo nel 1983 dal Giornale: altro che “licenziati”, come ho letto poi sul libro di un presunto e tardivo biografo di Indro. Ce ne andammo per approdare nel gruppo editoriale di Attilio Monti, dove con nostro grande imbarazzo dopo qualche anno scoppiò il caso di una improvvisa nomina di Roberto Ciuni a direttore della Nazione.

Ciuni era, per carità, un professionista di prim’ordine. Ma il suo odore di P2, che gli era già costata la direzione del Mattino, ci mise in grandissima difficoltà. Bettiza si dimise da direttore editoriale del gruppo. Io rimasi alla Nazione, ma per guidare la rivolta contro la nomina.

Durante un’infuocata assemblea di redazione, a Firenze, fui chiamato al telefono dall’allora presidente del Consiglio Craxi. Che, informato evidentemente dall’editore, o chi per lui, e invitato a dissuadermi dall’azione sindacale, mi chiese al modo suo: “Che cazzo sta succedendo?”. Gli spiegai che, sostenendo convintamente come editorialista la sua linea politica, di forte contrasto con l’opposizione comunista, non mi piaceva l’idea che Ciuni la cambiasse. O che, non cambiandola, quella linea potesse essere riferita ai pur fantomatici progetti golpistici di Gelli.

Craxi non esitò un istante: “Questa cosa non può reggere”, disse. Seguì qualche ora o giorno dopo la rinuncia di Ciuni alla nomina e la sua sostituzione, a Firenze, con il direttore del Resto del Carlino Tino Neirotti. Il quale, da gran signore, anche se su Craxi la pensavamo diversamente, accettò solo dopo essersi assicurato, con una telefonata, che io rimanessi al mio posto. Mi chiamò poi Craxi per dirmi: “Hai fatto una buona cosa. Peccato che tu abbia perso una direzione”. Pazienza.

(LE ULTIME SORTITE TEATRALI DI MARCO TRAVAGLIO. FOTO DI PIZZI)

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Dopo qualche anno, nel 1989, arrivai alla direzione del Giorno, a Milano. Dove nell’autunno di quello stesso anno un imbarazzatissimo centralinista mi chiese: “Direttore, c’è una persona che chiede di Lei. Debbo passargliela?”. E chi è? “Licio Gelli”, mi disse. Non lo avevo mai visto e sentito. Negarmi mi sembrò però una vigiliaccheria, per cui accettai di parlargli.

Gelli prima si complimentò per la nomina e per la linea politica che avevo impresso al giornale, sdraiato prima di me sulla prospettiva di un’intesa fra democristiani e comunisti. Poi si offrì per un’intervista. Io gli risposi, più o meno testualmente: “Senta, Gelli, non so neppure come chiamarLa: commendatore, cavaliere, conte… Le riconosco di non essere stato e di non essere un golpista, ma di avere solo una grande passione per affari e carriere, preferendo gli uni e le altre evidentemente alle donne. Ma perché mi vuole male, pur non essendoci mai conosciuti e pensando io di lei quello che Le ho detto? Le pare che possa esordire, o quasi, come direttore con una intervista a Lei?”. Lui si fece una grande risata. Con la quale finì anche quel nostro primo e unico approccio.

(LICIO GELLI VISTO DA UMBERTO PIZZI. LE FOTO D’ARCHIVIO)

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