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Isis, Turchia e Ucraina. Ecco parole (e minacce) di Putin

putin russia

Oggi il presidente russo Vladimir Putin ha tenuto la conferenza stampa di fine anno davanti a circa 1400 giornalisti: «State pronti per il Putin show», anticipava Bloomberg. Diversi i temi caldi, la situazione economica del Paese su tutti, ma anche un passaggio sul presidente della Fifa Sep Blatter «che dovrebbe avere il premio Nobel per la Pace» (il riferimento è allo scandalo che ha coinvolto alcuni vertici dell’organizzazione calcistica internazionale); nonché un endorsement a Donald Trump, candidato (discutibile e discusso) alle primarie repubblicane per la presidenza degli Stati Uniti. Molta dell’attenzione s’è concentrata su aspetti di politica internazionale: a partire dalle tensioni con la Turchia, leva per spingere il nazionalismo e stringere il consenso. Poi l’impegno in Siria per trovare una soluzione politica alla crisi, e l’intervento militare al fianco di Damasco, che al Cremlino definiscono “lotta al terrorismo”, ma che sul campo porta risultati relativi e finora ha colpito più che altro i ribelli “scomodi” per il regime siriano, senza abbattere effettivamente lo Stato islamico.

LA CRISI UCRAINA

Due giorni fa Putin aveva annunciato di volere sospendere dal primo gennaio prossimo l’accordo di libero scambio con l’Ucraina (un’intesa che accomuna tutte le repubbliche ex sovietiche e la Russia), a causa di «circostanze straordinarie che ledono gli interessi e la sicurezza economica» della Russia, scrive la BBC citando il presidente. E dunque ritorna centrale la questione ucraina: una crisi che, nonostante l’attenzione sia per lo più rivolta ad altri focolai, è tutt’altro che risolta. A fine novembre la Russia aveva già preso una decisione forte, che avrebbe potuto riaccendere le tensioni: Gazprom, il principale produttore russo di gas naturale, aveva annunciato la sospensione delle sue forniture a Kiev e minacciato di sospendere quelle di carbone. Decisione probabilmente strascico delle accuse con cui Mosca incolpava, pochi giorni prima, l’Ucraina di aver sabotato le linee elettriche che trasportano l’energia in Crimea, lasciando la penisola annessa lo scorso anno alla Russia al buio in un black out totale durato un paio di giorni. «Un’azione terroristica» contro i civili, aveva commentato il Cremlino.

UNA GUERRA ANCORA APERTA

«Russia e Ucraina sono ancora in guerra» è il giudizio di un editoriale del New York Times a firma di Andrew Foxall, direttore del Russia Studies Centre alla Henry Jackson Society. Per avere un’immediata controprova di questa affermazione, bisogna osservare alcuni numeri: dal 15 febbraio, quando è stato siglato l’accordo di pace denominato “Minsk II” (dopo che il primo era miseramente fallito), sono morti 400 soldati ucraini e circa 200 civili (dati riscontrabili nei vari report dell’Ufficio dell’Alto commissario della Nazioni Unite per i diritti umani). Nei primi sei mesi dall’accordo, le violazioni sono state quotidiane, secondo quanto registrato dall’Osce (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa). Colpi di armi leggere, di mortaio, spari dai carri armati, uccisioni, che si sono fermate a cominciare da settembre, in coincidenza con la diffusione delle prime notizie in merito all’aumento del coinvolgimento russo in Siria. Due mesi apparente calma, per poi ripartire come prima a novembre, sottolinea Foxall.

LE TRUPPE SUL CAMPO E GLI INTRALCI ALL’OSCE

Tra le dichiarazioni più riprese dalla conferenza stampa del presidente russo, c’è quella riguardante l’ammissione della presenza di forze speciali russe sul suolo ucraino: una circostanza a lungo negata da Mosca, che nelle parole del presidente si è trasformata in: «Non abbiamo mai detto che non c’erano persone lì che avevano alcuni compiti anche in campo militare» cita la Reuters. La presenza russa sul terreno è segnalata ancora come fortissima: l’Independent ha stimato che ci sono almeno 9mila truppe regolari che ancora si trovano in Ucraina; mentre da dati del Kyiv Post ci sono oltre 30mila uomini delle milizie separatiste che combattono nelle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk sotto il completo controllo russo. Entrambe le circostanze rappresentano un’altra violazione degli accordi di Minsk II, secondo cui le truppe e i relativi armamenti russi dovevano essere ritirati e le milizie dovevano smettere di combattere. L’Osce non riesce a monitorare bene la situazione (come dovrebbe fare in base all’accordo), perché a detta di molti osservatori viene completamente intralciata dai divieti imposti dai separatisti, che negano accessi alle aree di confine ai commissari europei e disturbano con apparecchiature militare i controlli GPS dei droni con cui gli ispettori vorrebbero controllare ciò che accade. I separatisti impediscono l’ingresso nelle aree controllate anche alle organizzazioni umanitarie (altra violazione dei Minsk II). Associated Press ha pubblicato un articolo a settembre, in cui stimava che ad oltre 150mila persone sono stati bloccati gli aiuti umanitari mensili. Unicef e Medici Senza Frontiere sono stati messi fuori dai territori del Donbass (la zona di guerra tra governo e separatisti, al confine con la Russia).

LA DIPLOMAZIA

L’Europa e la sanzioni. A marzo il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk aveva annunciato che le sanzioni contro la Russia sarebbero state rinnovate automaticamente finché non si sarebbe stabilizzata la situazione in Ucraina. Poi ci sono stati i fatti di Parigi, circostanza stringente che ha portato la minaccia dello Stato islamico ad un altro livello (quello di compiere importanti attacchi terroristici all’estero) e messo la Russia nell’ottica di una possibile intesa globale per combattere il sedicente Califfato. Alcuni Paesi hanno iniziato una normalizzazione dei rapporti con Mosca, vedi per esempio l’intesa militare in chiave “anti Isis” con la Francia. L’Italia, mossa anche da ragioni geopolitiche legate ai gasdotti South Stream (ufficialmente bloccato sotto sanzioni) e North Stream (lo stesso sotto sanzioni ma tutt’ora attivo grazie alle pressioni della Germania), ha proposto di rivedere il programma sanzionatorio; alcuni osservatori ritengono che si tratti di una mossa del Cremlino, che fa leva sulla volontà di ogni Paese europeo di preservare innanzitutto i propri interessi, cercando di dividere l’Unione. In un’intervista al Foglio, il segretario dell’Osce Lamberto Zannier critica l’approccio «miope» dell’Ue alla crisi ucraina: «Bruxelles tende ad avocare a sé la regia delle operazioni, non riuscendo però ad andare oltre al problema contingente, a sviluppare strategie di lungo termine». Per Zannier l’Europa non ha fatto abbastanza e ha adottato solo politiche di emergenza (il discorso del diplomatico si ampia, e comprende anche la crisi dei migranti e il delicato equilibrio nei Balcani).

Il passo del Fmi. Il Fmi ha modificato ad inizio dicembre le regole sui prestiti (erano in piedi dagli accordi di Bretton Woods del 1944), consentendo agli Stati che non onorano i debiti verso Paesi terzi di continuare a ricevere gli aiuti del Fondo. Traslato sulla crisi ucraina, significa che Kiev potrà continuare a ricevere il sostegno economico della struttura diretta da Christine Lagarde anche se non rimborserà i 3 miliardi di dollari di prestiti ricevuti dal fondo sovrano russo alla vigilia della deposizione di Viktor Yanukovich (dimessosi nel 2014 all’inizio della crisi). Il ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, in una lettera al Financial Times, aveva definito la decisione «non ragionevole». La decisione del Fondo allontana Kiev dal legame finanziario con Mosca, ma rischia di gettare benzina in un fuoco che ancora brucia, anche se più lentamente.

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