Il giorno di Natale la Reuters ha pubblicato in esclusiva un report molto ripreso dai vari media per i suoi risvolti macabri: medici dello Stato islamico avrebbero estratto gli organi a decine di nemici uccisi, questione che secondo l’agenzia di stampa britannica può far supporre anche che il Califfato abbia aperto, o intenzione di aprire (o che abbia le potenzialità per farlo), un business nel settore del commercio illegale di organi umani. I documenti visti da Reuters sono stati rinvenuti durante un raid delle forze speciali americane nell’est della Siria avvenuto a maggio.
L’agenzia dice di non essere in grado di confermare autonomamente l’autenticità dei dati visionati. E nemmeno di comprovare eventuali traffici, anche se l’ambasciatore iracheno all’Onu sostiene che i documenti sono la prova dell’implicazione dell’Isis anche nel traffico d’organi, come fonte di reddito.
I documenti
Il dossier visto da Reuters si intitola “Lessons Learned From the Abu Sayyaf Raid”, e contiene all’interno passaggi con cui si cerca di fornire giustificazioni legali e dottrinali per vari tipi di azioni dei miliziani. Nello specifico: «La vita e gli organi degli apostati non sono degni di rispetto e possono essere presi con impunità», recita una fatwa, cioè un’indicazione sull’orientamento della sharia riguardo ad una certa questione giuridica, contenuta nel documento; che sembrerebbe, se autentico, redatto dal Comitato fatwa e ricerca dell’IS, entità alle dirette dipendenze del Califfo. Per salvare la vita ad un musulmano ferito, è permesso uccidere e prendere gli organi ad un infedele, anche nel caso di prigionieri vivi, secondo quanto scritto dal Califfato nel precetto. La fatwa offre dunque un supporto teologico-giuridico di tipo sharitico, che può anche superare il divieto riconosciuto da gran parte dei musulmani al traffico di organi, e che di certo apre un’altra terribile finestra sui baghdadisti.
Un raid fondamentale
Il raid di maggio durante il quale sono stati rinvenuti i documenti, è quello in cui trovò la morte Abu Sayyaf, un tunisino il cui vero nome era Fathi ben Awn ben Jildi Murad al-Tunisi, top leader con incarichi legati al settore finanziario e petrolifero. In quell’occasione fu imprigionata la moglie del quadro jihadista, catturata dal team della Delta Force americana che condusse il blitz nei pressi di Deir Ezzor, in Siria. Furono ritrovati terabytes di dati all’interno di computer, hard disk e chiavette usb: si tratta del più importante set di documenti sottratto allo Stato islamico, una delle missioni che ha convinto Pentagono e Casa Bianca sulla bontà dell’uso di azioni mirate di questi corpi scelti, sia per colpire i leader e dunque infliggere danni alla catena di comando del gruppo, sia per raccogliere importanti informazioni sulla struttura e sull’organizzazione (due giorni fa, altri operatori delle Sof americane sono arrivati al nord della Siria).
Barbarie
Dei documenti raccolti durante il raid su Abu Sayyaf, ne è stata diffusa soltanto la parte riguardante il traffico di reperti archeologici (esposta durante un evento dedicato al Metropolitan Museum of Art di New York), mentre molti dettagli sono stati invece condivisi con le intelligence degli altri Paesi alleati nella lotta al Califfato, nell’ottica di creare sinergia nella conoscenza del gruppo e per aumentare l’efficacia anche nel combattere le entrate finanziarie dell’organizzazione (un risoluzione Onu in questo senso è stata approvata qualche giorno fa).
A febbraio era stato chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di aprire un’indagine sulla morte di 12 medici dello Stato islamico: secondo le richieste che il governo iracheno aveva avanzato all’Onu, quei medici sarebbero stati uccisi per essersi rifiutati di praticare l’espianto di organi.
Dei documenti recuperati in quel raid di maggio, fa parte anche la più nota Fatwa numero 64, che è quella in cui vengono giustificati gli stupri e spiega nel dettaglio quali sono le pratiche e i comportamenti sessuali violenti che bisogna adottare con le “schiave”, creando di fatto quella che è stata definita “la teologia dello stupro“.