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Eni, Saipem e Saras. Chi guadagna e chi perde col petrolio a basso costo

Sotto quota 35 dollari al barile. Solo un anno fa nessuno avrebbe scommesso che l’oro nero avrebbe toccato questi livelli infimi, avendo veleggiato per circa tre anni e mezzo, dal giugno 2011 al settembre 2014, sopra i 100 dollari. Quello che è successo poi, durante tutto il corso del 2015, ha sparigliato completamente le carte e ridisegnato del tutto lo scenario mondiale del petrolio.

IL FALLIMENTO DELLA STRATEGIA OPEC
“Quasi quattro anni di prezzi sopra i 100 dollari al barile hanno portato un aumento negli investimenti e consentito il forte sviluppo dello shale oil Usa – dice Emmanuel Painchault, Head of Commodities and Infrastructure di Edmond de Rothschild AM – Con una crescita della domanda limitata, il mercato ha eccesso di offerta e i Paesi Opec perdevano quote di mercato. A novembre 2014, l’Opec ha deciso di lasciare il mercato libero di ribilanciarsi, con la conseguenza di una forte correzione dei prezzi. Conseguenza ulteriore è stata la riduzione degli investimenti da parte delle oil company, il declino della produzione di shale gas, ma non così velocemente come previsto, grazie alla importante riduzione dei costi e al miglioramento della produttività. Non sorprendentemente il 4 dicembre l’Opec ha lasciato invariata la strategia e non ridotto la produzione, ma ha rimosso la soglia di produzione per Paese”. Evento senza conseguenze per tutti i Paesi che – ad esclusione dell’Arabia Saudita già producono al massimo delle proprie possibilità. Ma che lascia aperta una porta all’Iran che a breve con la rimozione delle sanzioni sarà in grado di aumentare l’export. L’incertezza intanto crea ancora maggiore pressione sui prezzi.

UN 2016 DI GREGGIO ANCORA DEBOLE
In sostanza, il crollo verticale dell’oro nero è stato determinato dal “tentativo dell’Opec di spingere fuori dal mercato i produttori che hanno costi di produzione più onerosi – spiega Thina Margrethe Saltvedt, Chief analyst macro/oil di Nordea – ma il processo è più difficile e lungo del previsto. Così dopo un anno di politica punitiva la produzione resta alta sia perché lo shale Usa è resistente sia perché la Russia è ai livelli di produzione più elevati dalla fine dell’Unione Sovietica. Il prossimo anno probabilmente l’Iran produrrà maggiori quantità che bilanceranno il calo violento che ci aspettiamo nello shale Usa. Né ci aspettiamo che aumenti la domanda in maniera significativa: il settore dei trasporti conta per il 55% del consumo di petrolio e la pressione ecologica spinge verso la ricerca di carburanti meno inquinanti che sono una minaccia per la domanda del petrolio”.

CHI VINCE TRA I PAESI
Si tratta insomma di un calo strutturale, destinato a rimanere tale nel tempo. Non vedremo più un petrolio a quota 100 dollari. E in questo mutato contesto, tra i Paesi c’è qualcuno che vince. “Vince chi consuma, ovvero Europa e Giappone, e alcuni grandi emergenti come India e Turchia, che ricevono una sorta di bonus fiscale, grazie alla minor spesa in greggio – spiega Marco Piersimoni, senior portfolio manager di Pictet Asset Management – mentre chi perde sono i produttori, Paesi arabi, Canada, Venezuela e Nigeria: le attenzioni dei mercati si sono concentrate su due aree particolarmente colpite, ovvero gli emergenti e quel pezzo di America che produce petrolio che è rappresentato dai titoli energy e dall’high yield Usa per il 20% fatto da emittenti del settore”. Non solo. “In generale un prezzo del petrolio così misero – aggiunge Piersimoni – ha anche un effetto dirompente sulla deflazione che le banche centrali cercano di combattere e sul rischio di questo effetto che dovremo concentrarsi nel futuro”.

A TUTTO SHORT SUI TITOLI ENERGY
“Nel peggior anno per le materie prime dal 2008 – sostiene Christian Gerlach, gestore delle strategie sulle commodity di Gam – La nostra posizione short più significativa in portafoglio è rappresentata dagli energetici, settore in cui l’accumulo di scorte in giacenza continuerà ad aumentare. Siamo posizionati in direzione di un’ulteriore turbolenza nel settore dei ciclici. Ed è difficile immaginare senza un indebolimento del dollaro come il mercato delle materie prime possa riprendersi e come l’inflazione possa risalire. Inoltre, qualsiasi rally sul mercato del greggio è probabile siano insostenibili dato l’alto livello di scorte in giacenza”.

NESSUNA MAJOR SI SALVA
Nessuna tra le società energy quotate è esente da batoste. Anche le major come Eni e Total – le più sensibili in Europa al fattore prezzo – perdono utile, rispettivamente l’1,7% e l’1,5% per ogni dollaro in meno sul barile. Non sono a rischio giganti come Exxon e Shell che hanno bilanci solidi e dividendi sicuri. “Sulle oil service, invece – dice Dario Michi, specialista energy di Banca Akros–ESN – come Saipem e la francese Technip l’impatto si manifesta solo se il petrolio rimane sotto certi livelli, 70 dollari, per un tempo prolungato: sufficiente cioè a condizionare il ciclo degli investimenti”. In particolare gli investimenti in deep water richiedono per essere redditizi che il petrolio sia su questa soglia di 70 dollari, “e questa è la ragione – spiega Michi – per cui Petrobas in Brasile ha dimezzato il proprio piano di investimento. Più difficile valutare il livello di prezzo a cui vale la pena estrarre lo shale gas, tra i 40 e i 75 dollari al barile. E qui la questione è persino più delicata, perché una serie di fallimenti a catena potrebbero mettere in tensione l’intero sistema bancario americano che sullo shale è molto esposto”.
Ma con il prezzo a questi livelli, le oil service sono le più impattate in negativo. “In Italia Eni e Saipem, in Europa Total e Bp – conclude Michi – mentre le società esposte al settore della raffinazione, che sono più stabili e con la materia prima a sconto vendono aumentare i margini, ne beneficiano. In particolare Saras, Repsol e Neste Oil”.


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