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A che punto è in Italia il programma di deradicalizzazione dell’Isis?

Non c’è una regia dall’alto, ma gli episodi di terrorismo in varie parti del mondo cominciano a essere troppi e troppo ravvicinati. Se gli attentati di Parigi del 13 novembre sono stati i più eclatanti per modalità e numero di terroristi coinvolti a vario titolo, gli investigatori italiani seguono con preoccupazione crescente quanto sta avvenendo, mentre l’Italia resta in ritardo su quel «programma di deradicalizzazione» di cui si parla pochissimo nonostante sia fondamentale.

In Egitto al quasi dimenticato abbattimento dell’Airbus russo avvenuto il 31 ottobre, si sono aggiunti giovedì 7 gennaio i vetri di un autobus di turisti arabo-israeliani frantumati a colpi di pistola davanti a un hotel del Cairo, venerdì 8 l’assalto a un resort di Hurgada sul Mar Rosso (tre turisti feriti e due terroristi uccisi) e sabato 9 l’uccisione di un colonnello della polizia egiziana e di un soldato a Giza, nella periferia del Cairo. Tutti episodi rivendicati dall’Isis. Vanno aggiunti due «lupi solitari» inneggianti al Califfato: il marocchino che il 7 gennaio ha assalito un commissariato a Parigi con coltello e finta cintura esplosiva e l’uomo che il giorno successivo ha sparato 11 colpi ferendo gravemente un poliziotto a Filadelfia, in Pennsylvania. Il primo è stato ucciso, il secondo arrestato.

In ambito europeo la notizia negativa è che, nonostante quanto avvenuto in Francia, la collaborazione tra gli investigatori dei vari Stati non ha fatto il salto di qualità che si sperava perché le informazioni continuano a non essere scambiate adeguatamente. In Francia riorganizzazioni sbagliate dell’apparato di sicurezza e rivalità complicano il lavoro di prevenzione mentre a livello europeo nessuno dimostra l’umiltà necessaria per prendere atto che andrebbe copiata l’Italia e il suo Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, tavolo permanente tra forze dell’ordine e intelligence basato su una proficua collaborazione.

In questa situazione così complicata, però, l’Italia resta un passo indietro sul fronte della prevenzione dal basso non avendo mai attuato un «programma di deradicalizzazione», anche se fin dal 2010 l’Unione europea ha adottato una «strategia di sicurezza interna» che comprende la prevenzione antiterrorismo e, appunto, la lotta alla radicalizzazione. Nel giugno 2015 la Camera dei deputati approvò una mozione in proposito, primo firmatario Stefano Dambruoso, deputato di Scelta civica e magistrato esperto di terrorismo. Nel testo si sottolinea il ruolo fondamentale svolto dalla scuola «per l’individuazione del disagio e la prevenzione del rischio di radicalizzazione dei ragazzi» e la necessità di creare «una vera e propria rete sociale che, partendo proprio dalla scuola, coinvolga famiglie, associazionismo, istituzioni e accompagni i bambini, sin dai primi anni di vita, nel loro percorso di sviluppo del pensiero critico e di rifiuto di ogni forma di estremismo». Le mozioni, si sa, impegnano il governo, ma sono destinate quasi sempre a restare negli archivi parlamentari.

Eppure, dopo quella decisione dell’Ue, molti paesi europei hanno adottato misure di vario tipo e se ne discusse anche a Manchester nel marzo 2015, quando si riunirono 90 educatori di tutti gli Stati membri dell’Unione e il progetto conclusivo fu poi trasmesso ai vari ministeri dell’Istruzione. Fondamentali sarebbero, per esempio, una corretta informazione nell’uso del web e la formazione specializzata degli educatori. Quella mozione impegna infatti il governo a «introdurre nel nostro Paese una strategia di contro-radicalizzazione mediante la formazione di operatori qualificati e una campagna di prevenzione che coinvolga la società civile e le istituzioni a tutti i livelli». Una strategia che preveda una «testa» nel cuore delle istituzioni che sappia indirizzare le tante articolazioni della società e coglierne i segnali: dettagli all’apparenza insignificanti e che possono manifestarsi in tanti ambienti, compresi gli ospedali o i centri di igiene mentali, oltre a scuole e università. Tempo fa, nel Nord Italia, una maestra notò che una mamma di religione musulmana non accompagnava più la sua bambina a scuola ed era stata sostituita da una parente. Qualcosa deve aver acceso una lampadina nella mente di quell’insegnante che segnalò l’anomalia alla polizia. La conclusione fu l’espulsione di quella mamma, avvicinatasi all’Islam più radicale e rinchiusasi in casa. L’Italia non può affidarsi solo all’ottimo lavoro dell’antiterrorismo e dell’intelligence. Ha bisogno di tutti.

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