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Chi brinda (e chi no) per il petrolio a basso costo

Il crollo del prezzo del petrolio (55% negli ultimi sei mesi, da 71 dollari a barile a 32 dollari a barile) ha fortemente avvantaggiato i Paesi importatori di energia e tra loro in particolare quelli più industrializzati; in effetti, bisogna unire alla caduta del prezzo del petrolio anche quella degli altri prodotti energetici fossili, carbone e gas.

In Italia la fattura energetica incide per il 3,5-4 % sul Pil. Tenuto conto della rivalutazione del dollaro sull’euro, questa caduta dei prezzi delle materie prime energetiche potrebbe trasformarsi da sola nel recupero di circa un punto percentuale di crescita del Pil. In situazione, più o meno analoga, si sono trovati quasi tutti gli altri Paesi industrializzati europei.

Gli Usa, d’altro lato, in questi ultimi anni hanno teso a rendersi totalmente autonomi nel loro fabbisogno energetico, avendo sviluppato nel Paese una forte produzione di gas da scisti (shale gas), con nuove tecnologie di estrazione e di lavorazione (peraltro fortemente contestate dagli ambientalisti).

Oggi addirittura, nonostante la caduta dei prezzi petroliferi, il governo federale ha riaperto le porte all’export del proprio “oro nero”. Non solo: molti americani stanno spingendo perché il governo riveda le proprie spese, militari e non, per proteggere l’area petrolifera mediorientale, in passato strategica per i loro fabbisogni petroliferi.

I Paesi esportatori, di contro, devono ora affrontare situazioni difficili e ormai sempre più complicate. Si dice che all’interno dell’Opec (cartello dei Paesi esportatori di petrolio: Algeria, Angola, Ecuador, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Indonesia), l’Arabia Saudita abbia richiesto e ottenuto l’abbassamento dei prezzi per una serie di motivi, tra i quali la lotta contro l’eventuale espandersi dello shale gas americano e anche (soprattutto) la lotta contro l’Iran, capace, attraverso il surplus economico da export petrolifero, di sostituire l’Arabia Saudita come potenza di riferimento dell’intera area.

Lo scontro tra i due Paesi, Arabia Saudita e Iran, non deve essere letto solo in chiave religiosa; da un lato ci sono i sauditi e i loro alleati del Golfo, che hanno nel petrolio l’unica vera fonte di ricchezza; dall’altro ci sono gli iraniani, che vivono in un sistema economico più complesso fatto sì di petrolio, ma anche di tecnologia, industrie, cultura e, quindi, potenzialmente più completi per il ruolo di Paese guida nell’area. L’Arabia Saudita peraltro sembra ancora mantenersi economicamente molto solida, nonostante abbia perso circa il 70% delle sue entrate petrolifere, con l’effetto di una perdita statale valutata per il 2015 in 98 miliardi di dollari circa; a fronte di questa situazione il governo saudita ha ridotto la spesa pubblica di 135 miliardi di dollari e ha previsto per il 2016 uno sviluppo del Pil del 3%, con un deficit pubblico che è passato dal 3,4 al 20,7 % (con un valutazione del prezzo del barile a 26 dollari). Gli iraniani, per contro, sembrano indifferenti alla tempesta petrolifera in corso; valutano il prezzo del barile per il 2016 attorno a 36 dollari ed esporteranno il loro petrolio soprattutto in Cina, India e Corea del Sud.

A parte dovrebbero essere affrontate le “sofferenze”, dovute a questa crisi dell’offerta petrolifera, di Paesi africani, come l’Algeria o la Nigeria, che sono esposti al terrorismo interno di Boko Haram; o di Paesi americani, come il Venezuela, scosso da gravi scontri politici interni.

Alcuni analisti hanno attribuito l’origine del crollo del prezzo del petrolio anche alla volontà degli Usa (che da sempre sono molto influenti nelle decisioni Opec) di contrastare gli interessi russi nell’export energetico. In effetti, la Russia è stata messa in ginocchio con l’embargo occidentale a seguito della crisi ucraina e oggi dalle minori entrate dovute al suo importante export di petrolio e gas (esso rappresentava il 65% di tutte le sue esportazioni e il 34 % del suo Pil). Gli economisti russi prevedono per il 2016 una diminuzione del Pil di circa il 5 % e il rublo ha perso circa il 60% del suo valore sul dollaro americano. In generale, il Fondo monetario internazionale valuta attorno al 2,25 % la diminuzione complessiva del Pil nei Paesi esportatori di petrolio.

In conclusione, la bufera petrolifera è in pieno svolgimento e, come è sempre stato, preannuncia grandi instabilità economiche e politiche. Oltretutto con le guerre in corso e il terrorismo diffuso, ogni previsione sull’andamento dei mercati energetici può essere altamente aleatoria: anche se l’ufficio studi dell’Opec, come ipotesi di lavoro, valuta attorno 30 dollari a barile il prezzo del petrolio nel prossimo lungo periodo, con punte di 70 dollari nel 2020 e 96 dollari nel 2040 (come riescano a fare questi conti resta un po’ misterioso).

L’Italia sarà dentro alla bufera: tutta la questione sarà quella di riuscire a trasformare i grandi problemi in grandi occasioni di sviluppo; le possibilità ci saranno.

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