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Libia, il caos intorno all’accordo Onu

Il 19 gennaio Roma ospiterà una conferenza sulla Libia. La pubblicazione libica Alwasat scrive che «l’Italia sta cercando di giocare un ruolo centrale sugli affari libici e salvare l’accordo politico dal collasso». Quando si parla di “accordo politico” si intende quello onusiano, che prevede la formazione di un esecutivo di concordia tra Tripoli e Tobruk, firmato il 17 dicembre scorso in Marocco, e che prevede un timing ben preciso: 40 giorni per creare il governo di unità e farlo (ri)insediare a Tripoli. Questo vuol dire che l’accordo, così come è stato concepito, potrebbe scadere tra due settimane. Quando si parla di “collasso”, si pensa anche alle enormi questioni che ci sono dietro a quella scadenza, che non si riassumono soltanto nella complicate trattative per cercare di mettere in pratica le decisioni raggiunte al tavolo negoziale sponsorizzato dalle Nazioni Unite (in questi giorni l’inviato speciale del Palazzo di Vetro, il tedesco Martin Kobler, è impegnato in continue e serrate trattative tra le parti).

RAPIMENTI E ATTENTATI SVENTATI A SABRATHA

Un esempio sulla situazione libica: venerdì trenta persone di Sabratha sono state rapite nella vicina Surman, in quella che sembrerebbe una rappresaglia per l’arresto di alcuni membri di una organizzazione criminale che si occupava di rapimenti ed estorsioni nell’area tra Sabratha, Surman e Zuwara. Il 19 luglio del 2015, a Zuwara, furono rapiti quattro tecnici italiani della ditta Bonetti che lavoravano al Wafa Field: non sono stati ancora rilasciati (una storia quasi dimenticata), ma non è noto, comunque, se l’organizzazione criminale protagonista dei fatti degli ultimi giorni sia la stessa che ha rapito gli italiani; e il motivo è che ci sono diverse realtà in tutta la Libia che vivono di attività criminali del genere. Sempre a Sabratha, un cittadino tunisino è stato arrestato un attimo prima di far detonare la propria cintura esplosiva nel mercato di Jameel: il link con la Tunisia è molto forte, l’area di Sabratha, prossima alla zona di confine, è considerata un territorio fertile attraverso cui l’IS libico sposta combattenti da e per la Libia (e non solo). La Tunisia è il Paese che ha contribuito di più a fornire foreign fighter al Califfato: due mesi fa, un tunisino arrivato dal nord della Siria, passando per la Libia, s’è fatto esplodere davanti all’autobus che trasportava le Guardie presidenziali, unità d’élite dell’esercito di Tunisi.

Sabartha è una cittadina molto vicina al terminal Eni di Mellitah, da dove l’azienda degli idrocarburi italiana gestisce il grosso del proprio lavoro in Libia. I due fatti sono soltanto una delle tante testimonianze di quanto, nonostante l’intesa teorica raggiunta via Onu tra le parti, la situazione sia ancora caotica e complicatissima. Giovedì, una cisterna d’acqua imbottita di esplosivo, è saltata in aria a Zliten, in un training camp della polizia: è stato il più mortifero attacco avvenuto in Libia dal 2011, ed ha colpito una di quelle strutture in cui dopo la resa operativa dell’accordo onusiano, militari occidentali (italiani per primi) potrebbero recarsi per fornire addestramento alle forze di sicurezza locali. Quindici libici sono stati trasferiti oggi, lunedì 11 gennaio, all’ospedale militare Celio: una nota della presidenza del Consiglio italiana, afferma che un C130 è atterrato a Misurata, dove il personale medico (protetto da uomini della forze speciali, come si vede in alcune foto) ha accolto i feriti sul velivolo che li avrebbe trasportati a Roma.

IL CAOS A SIRTE E NELLE CITTÀ DEL PETROLIO

Altri due esempi. Il primo: residenti dell’area di Sirte, sotto controllo dello Stato islamico, hanno detto alla Reuters che un attacco aereo non identificato ha colpito un convoglio dell’IS che si spostava da Sirte e Bin Jawad. Tobruk non ha diffuso comunicati sull’airstrike: il racconto dei testimoni per il momento non può essere verificato, ma se fosse vero chi ha compiuto il raid aereo? Le forze del governo di Misurata hanno comunicato su Facebook di aver compiuto un attacco aereo, senza specificare quando e dove: hanno detto solo che sulle bombe c’era scritto “per i martiri di Zliten”; Misurata non è molto distante da Sirte, dunque sono stati loro a vendicare i cadetti? È noto anche, però, che l’area di Sirte, roccaforte libica dello Stato islamico, è continuamente sorvolata anche dai voli dei droni americani, e francesi e italiani: si è trattato allora di un attacco occidentale? Non è chiaro per il momento. Bin Jawad è stata conquistata dal Califfato negli ultimi giorni nell’ambito dell’offensiva che il gruppo ha dedicato al capo dell’organizzazione in Libia, Abu Mugharia al-Qahtani, e che ha visto i baghdadisti all’attacco anche verso le aree petrolifere di Ras Lanouf e Sidra (in buona parte respinti), e, ancora più a ovest, Ajdabiya (anche qui respinti, non senza perdite, dalle forze della PFG, la milizia indipendente che si occupa della sicurezza dei campi pozzi). La conquista di Bin Jawad è stato il successo principale ottenuto dalla Stato islamico nell’offensiva “al Qahtani” lanciata il 6 gennaio: l’organizzazione ha diffuso delle immagini in cui la hisbah (la polizia religiosa) locale bruciava in pubblico mucchi di sigarette, come messaggio propagandistico per annunciarne il controllo, mentre le autorità libiche dicevano di avere la situazione in mano.

Secondo esempio: fonti tra le guardie di sicurezza degli impianti petroliferi hanno dichiarato sempre alla Reuters che domenica tre barche hanno attaccato gli impianti portuali di Zueitina, nell’ovest del paese, tra Misurata e Sabratha. L’attacco è stato respinto prima che le barche arrivassero al porto: gli uomini del PFG hanno dichiarato che era stato portato da miliziani del Califfato (se così fosse, si tratterebbe del primo attacco via mare lanciato dai baghdadisti).

LA TRAGICOMMEDIA DEL PRIMO APPROCCIO LIBICO DI SERRAJ

Venerdì Fayez Al Serraj, il premier designato a guidare la Libia e definito dal presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi l’uomo giusto «per stabilizzare la Libia», è sopravvissuto per un soffio alla prima missione in casa propria. Nel pomeriggio doveva atterrare a Misurata per poi dirigersi a Zliten, dove avrebbe offerto l’omaggio funebre del futuro governo alle reclute uccise dall’attentato di giovedì scorso. Ma ancora prima che il carrello del suo aereo potesse toccare il suolo, era scattata l’emergenza: un’ambulanza guidata da un kamikaze dello Stato islamico era diretta all’aeroporto per farsi esplodere sotto il velivolo. È stata intercettata dalle forze di sicurezza di Misurata grazie ad una soffiata, ma già il tutto partiva male, dato che la missione di Serraj doveva essere segreta ─ evidentemente ci sono delle falle (eufemismo) nell’apparato di sicurezza libico. A quel punto, con l’aereo che attendeva il via libera per l’atterraggio e le auto della polizia misuratine che si lanciavano all’inseguimento dell’ambulanza-killer (poi esplosa in una via della città, provocando soltanto la morte dell’attentatore), la notizia dell’arrivo del futuro premier è giunta all’orecchio di tutti, tanto che una milizia combattente che si oppone all’accordo Onu, aveva schierato le sue forze bloccando il cancello principale dell’aeroporto. Al che, atterrato, Serraj è riuscito ad uscire dallo scalo da un via secondaria, ed a raggiungere Zliten dove ha presieduto la cerimonia di commemorazione, ma non finisce qui. Ad aspettarlo mentre lasciava il palco, c’erano cinque auto con dentro uomini armati che hanno sparato verso la milizia misuratina (al Halboos il nome) che faceva da bodyguard al wannabe-presidente, che si è trovato costretto a rifugiarsi nel municipio di Zliten, da cui è fuggito in elicottero verso la Tunisia (dove si trova nell’attesa che l’accordo Onu diventi operativo). Ha scritto Gian Micalessin sul Giornale: «Il venerdì nero di Serraj è la tragicomica dimostrazione dell’inadeguatezza del premier scelto dalla comunità internazionale… Serraj dimostra di non possedere né l’autorevolezza politica necessaria ad imporsi sulla miriade di fazioni libiche, né la forza militare indispensabile per contrapporsi allo Stato Islamico». Pare che il governo di Tripoli voglia inviare una nota di protesta formale al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, perché l’entrata di Serraj in Libia di venerdì non era stata concordata: i tripolitani l’avrebbero definita «illegale».

(Foto: Flickr/MONUSCO)


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