I due direttori emeriti della Repubblica di carta, Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro, in ordine non solo anagrafico, hanno un segreto altrettanto emerito. Che hanno voluto tenersi per loro, lasciando i lettori a bocca asciutta, anche nel lungo e amichevole “dialogo” con il quale hanno festeggiato i primi 40 anni del loro giornale in due pagini speciali.
Ma di che segreto si tratta? Eccolo, nelle testuali parole pronunciate da Ezio Mauro riferendo dei 20 anni trascorsi alla guida di Repubblica in simbiosi culturale e professionale con Scalfari: “Abbiamo litigato una sola volta”. Oddio, quando? E su chi o che cosa? In quale passaggio editoriale, politico, personale? E quale altro dialogo o occasione si dovrà attendere per saperlo? Ma qui si rischia di sentirsi rispondere come da quel parlamentare passato da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi e immortalato già in vita dall’imitatore inimitabile Maurizio Crozza. Egli mette le mani sull’obbiettivo e, sarcastico, esorta l’interlocutore di turno a farsi i cavoli suoi. Cavoli, per non cadere nel turpiloquio consentito solo al comico.
(CHI C’ERA AL PASSAGGIO DI TESTIMONE FRA MAURO E CALABRES. FOTO DI UMBERTO PIZZI)
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Escludo, così a naso, che i due direttori oggi emeriti abbiano “litigato” sull’arrivo alla loro Repubblica del terzo ed ora effettivo direttore Mario Calabresi. All’annuncio della cui nomina Scalfari stesso manifestò pubblicamente il proprio “fastidio” per questioni di “metodo”, non essendo stato preventivamente informato. A procurargli fastidio non poteva essere stato Mauro, sprovvisto del potere di nomina del successore. Fu l’editore Carlo De Benedetti, corso poi a casa di Scalfari per scusarsi e scongiurarlo di rinunciare al minaccioso proposito di interrompere o diradare la sua collaborazione.
Anche a costo di fare peccato di malizia, ma con buona probabilità di indovinare, secondo un vecchio adagio di Giulio Andreotti, penso che a far litigare Scalfari e Mauro sia stato lo scontro consumatosi nell’estate del 2012 fra l’allora presidente della Repubblica, quella vera, e la Procura di Palermo, restia alla distruzione delle intercettazioni telefoniche in cui Giorgio Napolitano era “casualmente” incorso parlando col suo amico ed ex vice presidente al Consiglio Superiore della Magistratura Nicola Mancino. Che era indagato, e ora sotto processo, per le presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella lontana stagione delle stragi del 1992.
Scalfari non esitò un istante a schierarsi con Napolitano, dal quale pure aveva dissentito l’anno prima, sia pure cortesemente, per avere tollerato troppo a lungo, a suo avviso, l’ultimo governo di Silvio Berlusconi. A favore invece della Procura di Palermo si schierarono, spalleggiati dal direttore, i cronisti giudiziari del giornale e storici collaboratori come Barbara Spinelli e il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky. Che vide nello stesso ricorso del Quirinale ai giudici costituzionali, per quanto legittimo essendo scoppiato un conflitto di competenze fra istituzioni dello Stato, una iniziativa dal sapore sostanzialmente intimidatorio. La Corte si trovava costretta, secondo il suo ex presidente, a dare ragione al Quirinale per la natura intrinsecamente apicale della Presidenza della Repubblica.
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Un altro passaggio curioso del “dialogo” fra gli emeriti della Repubblica di carta è quello in cui alla logica rivendicazione di Mauro della fortuna di avere ereditato, e del merito di avere diretto un giornale “non di partito”, non al servizio cioè di un partito, o di una sua componente, Scalfari ha voluto aggiungere che non è mai stato neppure “un giornale partito”.
Ebbene, Scalfari con questa negazione è insolitamente e ingiustamente modesto. Il suo è stato, eccome, un giornale partito. Del resto, esso nacque nel 1976 per essere il versante opposto di un altro giornale partito: quello fondato due anni prima da Indro Montanelli per essere il punto di riferimento dei moderati e anticomunisti.
Ricordo bene gli sfoghi quasi rabbiosi che, raccontando e commentando la politica per il Giornale, mi capitava di raccogliere dall’allora capogruppo democristiano della Camera Flaminio Piccoli. Sfoghi di cui il mio direttore era orgoglioso, trattandosi di una protesta contro il fatto – diceva testualmente Piccoli – che “i miei deputati rispondono più a Montanelli che a me”. Non dissimili erano gli umori dei segretari dei partiti laici alleati della Dc, che consideravano il loro elettorato troppo influenzabile da Montanelli, per cui facevano letteralmente la fila al suo ufficio o telefono.
Ecco, Scalfari volle e spesso riuscì a fare altrettanto a sinistra, allora egemonizzata dal Pci, qualche volta aiutandola, anche a sbagliare, in verità, secondo una logica condivisa da Mauro. Che ha chiuso il mandato lamentando, nell’editoriale di rito, un’Italia “svuotata dal ventennio di Berlusconi” e ridotta a una “apatia civica diffusa”. Ma neppure la sinistra, per quanto vento cerchi di soffiare sulle sue vele la Repubblica degli emeriti, mi sembra che sia riuscita o possa riempire e galvanizzare questo Paese che appare svuotato a Mauro.
(UMBERTO PIZZI SI AGGIRAVA ALLA FESTA DEI 40 ANNI DI REPUBBLICA. TUTTE LE FOTO)