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Vi spiego perché Juncker ha torto marcio sull’Italia

Jean-Claude Juncker ha preso d’aceto: abbandonando la consueta flemma, il presidente della Commissione europea ha rimbrottato il premier Matteo Renzi, affermando che ha torto a vilipendere la Commissione ad ogni occasione. Come se non bastasse, si è attribuito il merito di aver introdotto il criterio di flessibilità nell’applicazione del Fiscal Compact, che invece Renzi aveva rivendicato a sé nell’intervento svolto di fronte al Parlamento europeo a conclusione del semestre di presidenza italiana.

Dietro le parole del presidente Juncker c’è l’ultima goccia che ha fatto traboccare il calice delle incomprensioni con l’Italia, già colmo: è stata l’indisponibilità, recentemente ribadita dal nostro governo, a porre a carico del bilancio degli Stati membri i 3 miliardi di aiuti promessi dall’Unione europea alla Turchia per dare ospitalità ai profughi provenienti dalla Siria. L’obiettivo, ufficialmente dichiarato, è di evitare ulteriori afflussi in Germania. La Cancelliera Merkel, dopo aver dichiarato al mondo intero che li avrebbe accolti tutti con un annuncio che ha avuto l’effetto dell’apertura delle cateratte, aveva dovuto prendere atto del montare delle proteste nel suo Paese: a metà ottobre era volata ad Istanbul per chiedere aiuto al presidente Erdogan, promettendogli che interverrà per accelerare l’ingresso della Turchia nell’Unione se questa si impegnerà a far cessare il flusso di migranti. Pagando, s’intende: ma sarà l’Unione a fare da ufficiale pagatore per la Germania. La Cancelliera Merkel non ci pensa lontanamente a chiedere al Bundestag di mettere le mani nel portafoglio dei contribuenti, non è l’Italia che, a tempi di Gheddafi, strinse un accordo a sue spese con la Libia per evitare che i barconi continuassero a sbarcare i loro traffici umani sulle coste della Sicilia. La Cancelliera si trova ancor più in difficoltà dopo le vicende di Monaco, dove a Capodanno numerosissime donne sono stata molestate sessualmente da immigrati organizzatisi per compiere le violenze.

L’Italia si è messa giustamente di traverso: non solo la scorsa estate ha invano chiesto solidarietà all’Europa e deroghe al Trattato di Dublino per la redistribuzione dei richiedenti asilo, ma si è anche sentita rispondere dalla Commssione che solo a consuntivo dei conti pubblici 2015 sarà valutata la ammissibilità della clausola di flessibilità per le spese di sicurezza ed accoglienza dei migranti: il conto del favore chiesto dalla Germania alla Turchia non deve essere ribaltato sugli altri. Questo è il “ditino alzato per fare domande a Bruxelles”, cui ha fatto riferimento Matteo Renzi nell’intervista che ha scatenato la reazione di Junker: Jean Claude, non sapendo più come fare per accontentare Merkel, ha perso il controllo.

La Commissione europea è un organo a trazione franco-tedesca, come la recente cronaca dimostra. Bastò infatti una dichiarazione stentorea del residente François Hollande, pronunciata dopo le stragi di Parigi, secondo cui “le esigenze della sicurezza nazionale prevalgono sulle regole contabili”, per far inserire immediatamente la clausola “sicurezza e migranti” fra quelle per cui è ammessa al flessibilità sullo sforamento del deficit: il presidente della Commissione Junker si allineò immediatamente. Rifiatò il giorno dopo, ma solo per ubbidire.

Che dire, poi, della verifica dei deficit pubblico da parte della Commissione: è affidata ad un latinorum incomprensibile quanto controverso, visto che se si adottassero i criteri del Fmi l’Italia avrebbe un bilancio pubblico ormai strutturalmente in pareggio, visto che oscilla intorno al -0,4% del Pil. Eppure Roma subisce continuamente esami al microscopio, per ammettere sforamenti dell’ordine di decimi di punto del Pil, pur essendo rientrata sotto il tetto del 3% già dal 2012. Parigi invece, soprattutto dopo la crisi, ha sempre sforato i parametri di Maastricht: è perennemente sotto procedura di infrazione per deficit eccessivo, ha un disavanzo pubblico strutturale che secondo il Fmi supera ancora i 2 punti del Pil, ma nessuno si leva mai a Bruxelles a rampognarla perché deve adottare riforme strutturali o perchè vive al di sopra dei propri mezzi. La penna rossa rimane nel calamaio.

Le capriole europee sul bail-in bancario sono anch’esse recentissime: a partire dal 1° agosto 2013, la Commissione ha cambiato il proprio indirizzo sull’ammissibilità degli aiuti di Stato. Lo ha fatto, naturalmente, dopo aver dato il via libera ai salvataggi delle banche tedesche, francesi, austriache e belghe e dopo che quelle spagnole hanno usufruito del contributo dell’ESM cui l’Italia partecipa doviziosamente. Quando si è trattato delle quattro piccole banche italiane in difficoltà, la Commissione europea si è impuntata: sin da giugno scorso, ha impedito che gli azionisti ed i sottoscrittori di obbligazioni subordinate potessero in qualche modo essere salvaguardati mediante interventi di ricapitalizzazione del Fondo interbancario per la garanzia dei depositi. Le nuove regole, poste a salvaguardia della concorrenza, non impediscono solo gli aiuti di Stato, ma anche l’intervento delle banche consorziate tra loro. Le regole di Bruxelles si fanno e si disfano a seconda delle esigenze di Berlino e Parigi.

Tornando appena un po’ indietro nel tempo, c’è stata la vicenda del Fiscal Compact: il pareggio di bilancio riguardava tutti, ma alcuni più degli altri. All’Italia, nel Consiglio europeo del 21 luglio 2011, fu imposto di anticipare l’obiettivo di un anno, al 2014: il nostro debito pubblico faceva paura ai mercati. Era arrivato al 116% del pil e la Bce governata da Trichet esitava ad acquistare ancora titoli italiani per evitare che gli spread salissero ancora. Allora era vietato sostenere gli Stati in difficoltà: sarebbe stata una monetizzazione del debito, una palese violazione del Trattato dell’Unione. Anche qui, le regole europee girano come il fumo: la Bce ora compra titoli di Stato con il Qe, 60 miliardi di euro al mese fino a settembre 2017, con il dichiarato obiettivo di far risalire l’inflazione immettendo liquidità. Con l’unico risultato, ad ora, di far accrescere i depositi bancari ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, anche se per tenerli fermi presso la Bce si paga un interesse dello 0,30%.

Quando furono le banche italiane a richiedere i fondi messi a disposizione con le Ltro triennali dalla Bce guidata dal governatore Bce Mario Draghi, tra il dicembre 2011 ed il febbraio 2012, si parlò di un disonorevole “stigma”. Ma nessuno aveva mai avuto niente da osservare sul fatto che la Bce, sin dal 2007, anticipava sempre maggiore liquidità alle banche tedesche in difficoltà, con un picco che raggiunse i 297 miliardi ad ottobre 2008. Dovevano fronteggiare le perdite sui titoli americani, guadagnando tempo per ritirare i prestiti dall’estero, ma soprattutto occorreva distogliere a tutti i costi l’attenzione dalla Germania e dal dissesto del suo sistema bancario puntellato dai fondi erogati dal governo federale e dalle anticipazioni della Bce. Si seminò il panico tra gli investitori, puntando sulla insostenibilità del debito greco, sul contagio dei mercati, e poi sulle difficoltà dell’Italia, per indurre lo spostamento dei depositi in Germania. Molti risarmiatori, impauriti, hanno cominciato così ad accontentarsi di tassi esigui se non negativi. Ora, il deflusso di fondi bancari, anche dall’Italia, si sta ripetendo, per il timore del bail-in: la Commissione è rigida e le banche tedesche incassano. Le regole europee cambiano, ma non i beneficiari.

Ci sono stati errori di strategia: la asimmetria italiana è rappresentata dall’enorme debito pubblico, che costa cifre inaudite e ci espone al ricatto dei mercati e degli altri Paesi. Andava abbattuto con misure straordinarie, senza penalizzare i risparmiatori. Le manovre draconiane che abbiamo dovuto adottare per non averlo ridotto hanno distrutto inutilmente posti di lavoro, redditi ed investimenti.

Si va a Bruxelles per difendere i propri interessi nazionali: industriali, bancari, sociali, politici. Anche a Bruxelles, “il bastone si pianta dove il terreno è più mollo”.



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