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Quanti sono i morti della guerra civile siriana?

In questi giorni a Deir Ezzor, una città della Siria centro-orientale ricca di petrolio, lo Stato islamico ha compiuto un massacro: le organizzazioni che monitorano la guerra civile siriana dicono che sono stati uccisi 85 civili e 50 soldati siriani dell’esercito. Il governo di Damasco parla invece di 300 civili morti, mentre circa altri 400 sarebbero stati rapiti. Sembra che le uccisioni siano avvenute per esecuzione, ma non ci sono conferme definitive. L’Isis controlla circa il 60 per cento dell’area di Deir Ezzor e i fatti di questi giorni sono avvenuti durante un’offensiva lanciata dai baghdadisti per conquistare al Baghaliyeh, nella zona settentrionale, dove un contingente dell’esercito siriano si trova da tempo isolato a tenere il fronte, ricevendo rifornimenti solo via aerea. Se i numeri dovessero essere veri, sarebbe una delle più sanguinose giornate nella storia del conflitto.

Due giorni fa la Reuters ha confermato che un ragazzo di sedici anni è morto di fame a Madaya, in Siria, città assediata da luglio dalle forze del regime, dove mancano acqua, cibo e medicinali: la sua storia, quella dei primi soccorsi arrivati in questi giorni raccontata dal Guardian, e le immagini dei bambini straziati dalla fame, è un altro terribile tassello del conflitto siriano. Almeno 400 persone rischierebbero la stessa fine del sedicenne morto venerdì, forse di più: probabile che ad alcuni sia già toccata, ma è un dato incerto e non confermabile.

Morti che si andrebbero a sommare a un bilancio già pesantissimo, anche se numericamente non verificabile in modo definitivo. È da qualche tempo che comunemente il numero dei morti causati dal conflitto civile siriano è stimato a 250 mila: una conta, triste, utilizzata a livello giornalistico così come da diversi influenti politici internazionali, per esempio, la candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti Hillary Clinton ha citato il numero in un suo intervento durante il dibattito dem del 20 dicembre scorso. Anche il segretario delle Nazioni Unite l’ha più volte indicata nei sui discorsi. Ma è davvero così? Non è chiaro.

L’ONU HA SMESSO DI CONTARE I MORTI

Innanzitutto perché l’Onu il 7 gennaio del 2014 ha annunciato la decisione di sospendere la conta dei decessi: Rupert Colville, portavoce dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights (OHCHR), ha spiegato che il problema riguarda soprattutto le difficoltà, enormi, riscontrate dalle varie organizzazioni indipendenti nell’accedere al territorio siriano, a cui si aggiunge la sempre più frequente impossibilità di verificare la bontà delle fonti informative. Questo due anni fa, ora la situazione sul campo s’è fatta ancora più frazionata e complicata. John Kirby, il portavoce del dipartimento di Stato americano, ha dichiarato che il fatto che l’Onu non riesca ad avere un conteggio dei decessi «sottolinea le profondità della crisi».

Non esistono, da almeno due anni e mezzo, stime sui decessi prodotte dal governo siriano o da qualche organizzazione lealista. Anche per questo il dato è comunque incompleto e non confrontabile. Per altro, uno studio circoscritto alla città di Homs, fatto tra il dicembre 2012 e il marzo 2013, aveva notato che il numero di morti reali era più del doppio di quelli stimati dai vari osservatori, questo perché nei momenti in cui la battaglia raggiunge la massima dinamica, si perde il conto delle vittime. Inoltre, altro grosso problema, è quello relativo alla classificazione/identificazione delle vittime: un morto che il Sohr inserisce tra i civili, non è detto che finisca nel novero dei miliziani per un altro centro di conteggio, rendendo tutto estremamente confuso.

CHI UCCIDE CHI

Uno degli elementi mancanti è anche il numero dei morti procurati dalle varie parti in guerra. Unanime è il giudizio che il regime siriano sia l’autore del più alto numero di vittime tra i civili, molto più di tutti i vari gruppi combattenti, compreso lo Stato islamico. Tempo fa erano uscite delle stime ─ stime, non numeri reali ─ abbastanza attendibili, che davano Bashar el Assad come responsabile di circa il 90 per cento delle morti, altre dicono il 75. (In questi giorni, il governo di Damasco sta affrontando un’altra condanna internazionale, a causa della situazione disperata di Madaya). Anche Paulo Sérgio Pinheiro, presidente della commissione indipendente d’inchiesta sulla Siria dell’Onu, ha detto lo scorso giugno che la maggior parte degli attacchi contro i civili siriani sono svolti dalle forze di Assad; molto si lega al controllo del cielo, prerogativa del governo, che spesso bombarda in modo indiscriminato obiettivi militari e non.

All’opposto, l’ambasciatore siriano alle Nazioni Unite, Bashar al Jaafari, ha detto che Damasco è una vittima delle morti e non il colpevole.

Chiaro che le parole di Jafaari sono propaganda e non rispecchiano la realtà, comunque hanno un fondo di verità. Molta meno attenzione è stata riservata alle morti tra i soldati del governo siriano, che tuttavia l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr) con sede a Londra stima siano un numero intorno alle 90 mila unità dall’inizio del conflitto: sembra che lo scorso anno siano morti più soldati lealisti (17600) che civili (13 mila). Della moria di uomini delle forze governative, comprese le milizie e le shabiha paramilitari, se n’era spesso parlato qualche mese fa, perché era una delle motivazioni forti dietro alle grosse diserzioni (l’altra era la mancanza di fiducia in un qualche genere di futuro): Assad, prima dell’intervento russo, era in profonda crisi, non rappresentava più una realtà credibile nemmeno per il suo elettorato più forte, ed era proprio la fuga dei ragazzi siriani dalla leva obbligatoria a fare da cartina tornasole di questa situazione: l’entrata in guerra di Mosca doveva avere anche un valore simbolico e d’immagine nel tentativo di invertire questa tendenza e rassicurare i fedeli al regime.

L’IMPORTANZA DEL CONTEGGIO

Il dato sulle morti, può sembrare di relativa importanza e sotto certi aspetti macabro, o può essere confuso con un tecnicismo storiografico, tuttavia è un valore fondamentale per aumentare la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e creare interessamento nei governi: l’Onu, per esempio, pubblica costantemente dati sui morti in Afghanistan e Yemen, anche per spingere gli attori in campo a comportarsi con moderatezza. «Queste stime contano, sono importanti politicamente, e sono importanti in termini di impostazione dell’andamento storico» ha detto su Foreign Policy Michah Zenko, senior fellow presso il Council on Foreign Relations: «Se si pretende di preoccuparsi di proteggere i civili dai pericoli, è necessario capire come i civili vengono danneggiati, in particolare ciò che è la forma di letalità che porta alla morte».

Alcuni tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, tra cui il senatore democratico Bernie Sanders e il repubblicano Donald Trump, hanno parlato della forza dello Stato islamico e espresso il desiderio di lanciare uccisioni di massa su Raqqa dopo gli attentati di Parigi o San Bernardino, sostenendo anche che gli Stati Uniti e altre potenze chiave dovrebbe lavorare con Assad per rovesciare il Califfato. Ma il numero di persone dello Stato Islamico ha ucciso rimane relativamente piccolo se confrontato con i dati stimati sul regime forniti dai gruppi siriani che cercano di documentare le morti. La Rete siriana per i diritti umani sostiene che lo Stato Islamico ha ucciso 1.712 persone, mentre il Centro di Documentazione violazioni  sostiene che il gruppo estremista ne ha ucciso 4.406 dall’inizio della guerra.

Ovviamente si tratta di stime, che per stessa ammissione del Centro potrebbero essere anche pari al doppio nella realtà, ma che rappresentano bene i rapporti numerici. La distinzione tra chi e come ha prodotto i morti, è importante tanto quanto il conteggio, perché secondo gli esperti sono proprio queste distinzioni a deviare le decisioni politiche. Un esempio: si è parlato molto della necessità di creare una no-fly zone al confine tra Siria e Turchia, così da creare un’area sicura dove poter anche raccogliere i profughi interni e permettere alle organizzazioni umanitarie di operare in tranquillità. La no-fly zone è però uno sforzo enorme dal punto di vista militare, perché metterebbe i paesi che la promuovono nelle circostanza di reagire militarmente contro chi la viola: un aspetto politico importante.

Il Centro di documentazioni sulle violazioni in Siria sostiene invece che le morti di civili sono molto più legate ad azioni a terra che agli attacchi aerei, e dunque la zona no-fly si renderebbe meno necessaria: sarebbe quindi più necessaria una safety zone, che però si porterebbe dietro una serie di operazioni tattiche e logistiche che coinvolgerebbero migliaia di soldati a terra e che sarebbe ancora più complicata da applicare rispetto alla no-fly. Notare che durante la campagna elettorale americana, la necessità di interdire il volo su certe zone della Siria (circostanza che si scontrerebbe anche con questioni di diritto internazionale), è stata più volte tirata in ballo da candidati anche forti, come Clinton, che potrebbero nel breve futuro occupare il ruolo decisionale alla Casa Bianca e spingere processi globali, senza avere a disposizioni dati affidabili.

 

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