Cresciuto d’interesse per il silenzio riservato all’argomento dei rapporti fra Matteo Renzi e Bruxelles, o Berlino, dal nuovo direttore Mario Calabresi nell’editoriale di esordio, l’abituale intervento domenicale del fondatore Eugenio Scalfari su Repubblica non ha deluso le aspettative dei critici del presidente del Consiglio. E li incoraggia – si vedrà poi se a torto o a ragione – a sperare che l’avvicendamento appena consumatosi al vertice del giornale non si tradurrà in una maggiore apertura di credito al capo del governo. Maggiore rispetto a quella asfittica, o inesistente, dimostrata da Ezio Mauro e condizionata forse dal fondatore.
Lo stesso direttore ormai emerito ha d’altronde confessato onestamente ai suoi lettori, accomiatandosene con un lungo colloquio con Scalfari sparso in due pagine speciali, di avere “litigato” una sola volta con lui, peraltro privatamente, senza incrociare penne o computer, nei vent’anni trascorsi al volante del giornale. E il litigio probabilmente, come abbiamo già sospettato e raccontato su Formiche.net, non fu neppure su Renzi, ma sull’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sostenuto appieno da Scalfari e non da Mauro nello scontro clamoroso con la Procura della Repubblica di Palermo. Che aveva intercettato il Quirinale nelle indagini sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione stragista del 1992.
Ora che Mario Calabresi, si vedrà se per sole ed encomiabili ragioni di stile, o anche per non meno encomiabili ragioni di prudenza, diversamente dal predecessore ha omesso di mettere il suo nome a destra sotto la testata, in prima pagina, lasciando campeggiare a sinistra solo quello di Scalfari, la campana dell’intervento domenicale dello stesso Scalfari è suonata, o è stata avvertita più forte del solito. E a lui le campane debbono piacere, forse ancor più dei suoi numerosi lettori, almeno da quando Papa Francesco gli ha amichevolmente sturato le orecchie laiche promuovendolo a interlocutore privilegiato di un mondo che non ha ancora trovato o ritrovato la fede solo per pigrizia. Che solo un Pontefice come lui, venuto dall’altro “capo del mondo”, può sperare o riuscire a vincere. Chi vivrà, vedrà, come si dice.
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Già nel titolo della sua omelia ai fedeli della Repubblica di carta Scalfari ha lanciato l’allarme di “una ventata nazionalista sul conflitto fra l’Italia e l’Europa” appena esploso con la polemica diretta fra i presidenti della Commissione europea e del Consiglio dei Ministri italiano, Jean Claude Juncker e Renzi. Ma nel testo l’accusa si fa più diretta e mirata contro il giovanotto di Firenze, come per un po’ anche Scalfari ha chiamato il sindaco della città del giglio, prima ancora che gli riuscisse la scalata al Nazareno, per la conquista della segreteria del Partito Democratica, e a Palazzo Chigi, per guidare il governo scalzando il troppo lento e prudente Enrico Letta. E aiutandolo a “stare sereno”, ma in un’altra collocazione. Che si è poi rivelata quella accademica, visto che, dimettendosi anche da parlamentare, l’ex presidente del Consiglio ha voluto passare dalla pratica all’insegnamento della politica, come un Cincinnato 2.0.
Opportunistico o convinto che sia, mosso cioè solo dalla convinzione di trarne voti nelle urne che lo aspettano già in questo 2016 e via via sino alla scadenza ordinaria della legislatura, se non dovessero sopraggiungere elezioni anticipate, o mosso da pulsioni culturali e politiche per le quali Scalfari ha ricordato i precedenti di Benito Mussolini e dei figli e nipoti missini, il “nazionalismo” di Renzi sarebbe funzionale all’obbiettivo più generale del sostanziale boicottaggio del processo d’integrazione europea. Egli non vuole, secondo Scalfari, che “si progredisca dalla Confederazione alla Federazione”. Cioè, “non vuole che i governi nazionali siano declassati, non vuole gli Stati Uniti d’Europa”, anche se il declassamento, allo stato attuale, si tradurrebbe a vantaggio non dei futuri Stati Uniti d’Europa, bellissimi a sentirsi e a dirsi, ma di un’Europa semplicemente tedeschizzata. Come temono e hanno denunciato con un misto di delusione e di preoccupazione anche fior di intellettuali e di politici della Germania. E lo hanno scritto e detto ad alta voce, non con il “sottovoce” che Scalfari ha rimproverato all’imprudente Renzi di non sapere usare nel sostenere le sue cause, e interessi, nei vertici e, più in generale, nel confronto internazionale.
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Dal nazionalismo, d’altronde omogeneo al cosiddetto Partito della Nazione attribuito ai progetti di Renzi, il passo al populismo è notoriamente breve. E Scalfari glielo ha già fatto compiere a Renzi scrivendo, testualmente, che “la Leopolda renziana è piena di populismi”. Che potranno moltiplicarsi se a Renzi dovesse riuscire anche a vincere – come Scalfari prevede – il referendum d’autunno sulla riforma costituzionale. Cui il fondatore della Repubblica di carta parteciperà naturalmente unendosi, nel fronte del no, anche ai grillini, ai leghisti e all’odiato Silvio Berlusconi.
Populista, come nazionalista, per Scalfari “non è un insulto, ma una constatazione”. D’altronde, anche se lo prendesse come insulto, Renzi potrebbe ormai fare ben poco, avendo appena depenalizzato l’ingiuria fra gli applausi liberatori di Vittorio Sgarbi, Beppe Grillo e tanti altri cultori delle parolacce, nel bene e nel male.